domenica 12 dicembre 2021

L'identità


 

L'identità di cui ci parla Milan Kundera, in questo breve romanzo scritto nell'autunno del 1996 e che ho voluto rileggere, è quella che può vacillare quando in una coppia uno dei due inizia a vedere l'altro in modo nuovo, o comunque diverso da come fino a quel momento l'ha visto.

Ciò può capitare per disattenzione, per malinteso, per troppa concentrazione su di sé, o semplicemente perché non ci si è curati abbastanza delle molteplici sfaccettature, siano esse continue, o cangianti, che compongono l'identità dell'amato e che  esigerebbero uno sguardo instancabilmente premuroso, ben oltre l'umana capacità di attenzione e comprensione. "Non staccherò più gli occhi da te. Ti guarderò continuamente".

Ma il gioco di sguardi, in generale e più ancora in una coppia, è gioco di specchi. Osservo e rivelo allo stesso tempo. Se improvvisamente l'identità dell'amato vacilla ai miei occhi, anche la mia identità vacilla. Se non so più chi è l'amato, allora non so bene nemmeno chi sono io: l'opacità e la nebbia che avvolge la sua identità mi appartiene e mi coinvolge.

Il mio sguardo sorpreso e la mia identità improvvisamente fuori fuoco inevitabilmente innescheranno a loro volta  stupore, dubbio e smarrimento nell'amato, in una spirale di reazioni e riflessi dall'uno all'altro che si perde in un labirinto sospeso tra sogno e realtà, immaginazione e ricordi, paura e speranza, fantasia e fisicità, fino al parossismo e al risveglio dall'incubo.

"Lascerò la lampada accesa tutta la notte. Tutte le notti".

Solita grande capacità di Kundera di catturare frammenti di quotidianità e di trasferirli nel mondo dell'astrazione e delle idee.

sabato 25 aprile 2020

Il tunnel, Abraham Yehoshua


Consiglio a tutti questo romanzo dolce e delicato, che con tatto, ironia e naturalezza tocca questioni come il decadimento fisico, la vecchiaia, la malattia e sfiora grandi temi come la convivenza pacifica tra popoli diversi.

La natura, con tutta la bellezza e la crudeltà che la caratterizza, per gli anni del nostro tramonto spesso ci costringe a fermarci, a limitarci, ad affidarci alle cure degli altri, noi che negli anni migliori magari eravamo distratti, assorbiti solo a correre verso mete sempre nuove, senza mai tempo per ascoltare, mai tempo per vedere, per sostare, solo per fare.

La demenza senile, il “rimbambimento” come spregiativamente si potrebbe dire, è in effetti un po’ un tornare bambini, ritrovare il gusto dello stupore e della meraviglia, perdere quell'indipendenza che spesso ci illude di essere onnipotenti, ritrovare il limite e la necessità di doversi affidare agli altri.

E’ un deserto di umiliazione, imbarazzo e mortificazione da attraversare, nel quale fare nuove scoperte e vedere ogni cosa con occhi nuovi. E prima che sia troppo tardi e cali la notte, conviene attraversarlo questo deserto, senza rimpiangere il passato che ci vedeva dominatori, ma guardando avanti, verso l’alba che verrà dopo di noi.

domenica 19 aprile 2020

Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo


Sono tornato alle pagine del Gattopardo dopo tanti  anni, trovando la conferma, una volta di più, di quanto sia bello e necessario continuare a leggere e rileggere i classici.

Questa volta ho scelto la versione in audiolibro, splendidamente interpretata da Toni Servillo. Una versione che esalta la parabola esistenziale del  Principe di Salina, quel suo rimirar le stelle a fronte della pochezza delle vicende umane. L’arcinota denuncia del cinismo e dell’opportunismo che caratterizzano ogni epoca di veloce trasformazione (quel “se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi” ormai diventato proverbiale, tanto che ha finito per rinchiudere le bellissime pagine di questo romanzo in un recinto troppo angusto) si trasforma, in questa mia nuova “lettura”, nel disincanto di chi capisce tutti i limiti del vecchio come del nuovo ordine e li osserva con malinconico distacco.

Memorabili i dialoghi nei quali vediamo all'opera il Gattopardo nei suoi rapporti con i Borboni (l’udienza con re Ferdinando) , con i piemontesi  (la visita del prefetto Chevalley, in cui rifiuta il seggio senatoriale), e con i suoi dipendenti (“questi liberalucoli di campagna”) tanto indolenti quanto  calcolatori, avidi e rapaci, che rappresentano il ceto emergente, lesto a cogliere l’occasione per saltare sul carro del vincitore (“le rondini avrebbero preso il volo più presto”), miseri “sciacalletti e iene”, destinati a rimpiazzare i gattopardi e a costituire la futura classe dirigente soprattutto in forza dei loro limiti e della loro inconsapevolezza.

Don Fabrizio si trova più a proprio agio con uomini schietti e sinceri, “snob” ante litteram, come l’organista don Ciccio Tumeo, che sdegnati dal conformismo truffaldino dei tempi nuovi preferiscono aderire tardivamente alla fazione sconfitta (“ero un fedele suddito, sono diventato un borbonico schifoso”) e trova intellettualmente e spiritualmente più stimolante il rapporto con esponenti  di un potere eterno e carico di storia come il gesuita padre Pirrone. Solo per dovere sociale subisce la frequentazione, in tempi diversi, tanto della decrepita aristocrazia in disarmo, quanto dei rozzi e incolti uomini nuovi, come quel don Pietro Sedara che con rassegnato senso di ineluttabilità accoglie persino nella propria famiglia.

A plasmare il romanzo, più che i fatti e gli avvenimenti, sono soprattutto i pensieri del Principe, l’indulgenza verso la debolezza umana (“non era lecito odiare altro che l’eternità”), il continuo richiamo della sensualità (“pecco per non peccare più”) e le numerose riflessioni sulla Sicilia (“questo è il paese degli accomodamenti”), sulla sua storia (“sono venticinque secoli almeno che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà eterogenee, tutte venute da fuori già complete e perfezionate”) e sui siciliani   (“in Sicilia non importa far male o far bene, il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di fare”).

All’ombra del Principe, a movimentare, contestualizzare ed intervallare il flusso principale della narrazione, si consumano anche vicende minori, come lo struggimento dickinsoniano  della figlia Concetta, infelicemente innamorata del cugino Tancredi, o come il dramma privato di  padre Pirrone, chiamato a risolvere nel più tradizionale dei modi una vicenda d’onore che coinvolge la sua famiglia.

In conclusione, un romanzo che pare un monumento alla caducità umana, che si apre nel mese di maggio 1860 tra gli eccessi di un giardino dagli odori fin troppo prepotenti e nauseabondi e si chiude esattamente cinquant'anni dopo nello stesso mese, tra ossa, carcasse imbalsamate e polvere da gettare nell'immondizia.

Non stupisce che alla sua uscita, negli anni ’50 della ricostruzione post bellica, non abbia incontrato lo spirito del tempo, né che molti addetti ai lavori abbiano criticato l’argomento passatista, l’orientamento antistorico, lo stile decadente e poco innovativo. A noi che leggiamo per puro diletto,  Tomasi di Lampedusa regala invece una prorompente sensazione di bellezza e immortalità, tuttora in grado di affascinarci, anche per via del continuo filo di ironia, che non viene mai meno. 
“Ho settantatré anni, all'ingrosso ne avrò vissuto, veramente vissuto un totale di due, tre al massimo. E i dolori, la noia, quanto erano stati? Inutile sforzarsi a contare, tutto il resto: settant'anni”.

lunedì 13 aprile 2020

Sono corso verso il NIlo

“Sono corso verso il Nilo” è un romanzo che nasce dall’impegno civile di ‘Ala al-Awani, dentista, scrittore e attivista del movimento egiziano per la democrazia Kifaya nel quale ha partecipato alla rivoluzione egiziana del 2011.
Indipendentemente dalla tensione morale e dai principi etici che ne stanno alla base, il romanzo mi ha positivamente impressionato per la capacità di tratteggiare un quadro molto ampio della società egiziana in molti dei suoi ceti, da quelli più popolari a quelli appartenenti all’oligarchia al potere. Da questo punto di vista, l’autore riesce ad illustrare in modo più leggero e ad un pubblico più ampio ciò che saggi politici o sociologici o inchieste giornalistiche cercano più faticosamente di raccontare, raggiungendo inevitabilmente un pubblico più ristretto. Inoltre si tratta di un libro letterariamente molto valido, con una storia avvincente nella sua drammaticità, uno stile fresco e godibile, personaggi interessanti e credibili. Non c’è un vero e proprio protagonista, ci sono una decina di personaggi, una decina di storie ugualmente importanti che si intrecciano e si alternano nella narrazione, contribuendo a rendere l’opera corale e avvolgente, ci si sente davvero immersi in un’atmosfera elettrizzante di cambiamento (su cui incombe la cupa consapevolezza di come andrà a finire), arrivando però a cogliere anche le ragioni di chi difende il regime e soprattutto dei moltissimi indifferenti, rappresentati nella loro quotidiana normalità, nella difficile arte di farsi strada nella vita senza mai ribellarsi e rimanendo costantemente vigili e pronti ad approfittare di ogni occasione di progresso per sé e soprattutto per i propri figli.

Ovviamente il tema religioso emerge ad ogni pagina, quasi ad ogni riga, ma in modo naturale, senza le forzature e le semplificazioni che in occidente ci siamo abituati a fare dall’inizio del XXI secolo. L’Islam di per sé non spiega né il regime oppressivo, né la corruzione, né le violenze o le discriminazioni: in nome della fede religiosa si può scendere in piazza per chiedere il cambiamento, oppure stare dall’altra parte della barricata e difendere il potere costituito, oppure tenersi fuori da tutto questo e continuare a fare la stessa vita di sempre. Ciò che l’autore rimprovera al suo popolo è di essere sottomessi non a Dio (in arabo muslim significa “sottomesso a Dio”), ma a chiunque eserciti il potere e di farsi manipolare da chi usa la religione, la corruzione e la polizia segreta per difendere i privilegi dell’oligarchia al comando, che detiene le redini del potere indipendentemente dal leader politico occasionalmente al governo.



Dal romanzo emerge poi anche il volto del fascismo, sempre uguale in tutte le latitudini e in tutte le culture: la repressione violenta e la tortura hanno l’obiettivo di annientare la persona nella sua dignità, di farla sentire una nullità, di mutilarla nello spirito ancora più che nel fisico, perché il fascismo di ogni epoca e paese pretende che non esistano individui, persone, ma soltanto masse indistinte, manipolabili e plasmabili con la propaganda.


In conclusione, un romanzo consigliabile a tutti per la sua qualità letteraria, per l’incisiva rappresentazione di un’importante realtà sociale contemporanea e per l’elevato valore morale che la ispira.

“Questa è la verità, Mazen. Io sono davvero una nullità, tu sei una nullità, tutti i ragazzi della rivoluzione sono una nullità. Ci hanno fatto, e continueranno a farci, tutto quel che vogliono. Ci ammazzeranno, ci violenteranno, ci faranno perdere un occhio con un proiettile di gomma, e nessuno sarà mai giudicato, nessuno mai pagherà. E sai perché? Perché siamo una nullità; perché abbiamo fatto una rivoluzione di cui nessuno aveva bisogno e che nessuno voleva. Lo so che tu credi ancora nel popolo. Io, invece, non ci credo più. Questo popolo, per la cui libertà e dignità sono morti i migliori di noi, non sa che farsene di libertà e dignità. Ti chiedevi il perché di tutto l’odio che abbiamo visto negli occhi degli ufficiali che ci ammazzavano. E’ perché loro detestano quello che noi rappresentiamo. E’ perché noi chiediamo di essere cittadini e non schiavi. Il popolo per cui abbiamo fatto la rivoluzione, Mazen, odia noi e odia la rivoluzione”.

sabato 11 aprile 2020

Paola Mastrocola, Leone

Paola Mastrocola è una scrittrice che mi piace molto perché scrive storie sempre un po’ vestite di elementi surreali per parlare meglio di argomenti concreti e contemporanei, piuttosto ben radicati nella nostra esperienza di vita quotidiana.



In questo romanzo ci parla con il consueto garbo e gentilezza di infanzia, di mura domestiche che custodiscono i nostri affetti e che impediscono di conoscerli fino in fondo, di periferie metropolitane che una volta erano state paesi a sé, e che poi hanno lasciato inghiottire i propri abitanti in una folla di solitudini e desideri, confondendoli in un groviglio di frettolosa modernità e di antiche vicinanze.

Una di queste periferie è il Bussolo, dove vive Katia, una giovane mamma con una vita di corsa, un lavoro al supermercato, al suo fianco un ometto di sei anni e nessun altro.

E poi c’è quella cosa strana e sconveniente che stupisce, disorienta, crea imbarazzo, irritazione, derisione e incredulità e che è la preghiera.

La veloce trasformazione del Bussolo, la sua urbanizzazione gonfia di vetrine, merci, orari, impegni e consumi aveva fatto mettere un po’ a tutti in soffitta la vecchia mercanzia delle nonne, i pomeriggi a giocare sul pavimento, le favole del coniglio Niglio, i materassi di lana, gli agnolotti a Natale e tutto quel tempo da riempire con le parole, i gesti, l’ascolto e le preghiere. Soprattutto le preghiere erano finite nel fondo del baule, dimenticate e sepolte da mille altri oggetti, ricordi e cimeli.

Ma qualche volta succede che i bauli si riaprono, le parole riaffiorano, la nebbia si dirada e la memoria ritorna. Bisogna però che ci sia uno scossone, qualcosa che ci spinga ad andare in soffitta. Come vedere un bambino che prega, con sincerità e spontaneità, ovunque gli capiti. Prega per essere meno solo su questa terra e per sentirsi unito a chi ama, che è forse il senso vero della preghiera in ogni tempo e in ogni luogo.

Vedere la preghiera uscire dai rassicuranti recinti delle chiese e dei monasteri, dal buio delle camerette o dal chiuso delle nostre menti per invadere il mondo libera e impudica, senza nemmeno il velo del bigottismo a ricoprila, è qualcosa di urticante e disturbante. I più impauriti, possono reagire con rabbia e aggressività. Eppure, manifestare i propri sentimenti più profondi è una via che infallibilmente conduce a molte sorprese.

Idea e soggetto molto belli e interessanti, il rischio di didascalismo aleggia un po’ dappertutto e rende lo stile meno brillante e tonico del solito, a partire da circa metà del romanzo.
Il tocco lieve, la capacità di trovare la bellezza nella normalità delle piccole cose, un pizzico di magia e qualche valido spunto di riflessione valgono la lettura.

domenica 5 aprile 2020

La peste

Non è necessario essere santi, né eroi, ma non per questo ci si deve rassegnare al Male. Occorre invece combatterlo, curarlo, limitarne i danni, consapevoli che una vittoria definitiva non la potremo mai ottenere. Il medico non può impedire la morte, può semmai ritardarla, curare la malattia, conscio che si tratta sempre di successi provvisori.
Questo mi pare, in estrema sintesi, il messaggio di questo romanzo, che ho voluto leggere per la prima volta nel tempo dell’attuale pandemia.
Orano, un’anonima cittadina sulla costa algerina viene sconvolta negli anni Quaranta del secolo scorso da un’epidemia di peste. Stupore, incredulità, preoccupazione, panico, rassegnazione si susseguono velocemente tra i cittadini indifesi e le autorità impreparate a gestire la situazione. “Nel mondo ci sono state tante epidemie di peste quante guerre. Eppure la peste e la guerra colgono sempre tutti alla sprovvista”.
L’amorfa collettività di Orano, senza caratteristiche particolari che la possano distinguere dall’Umanità tutta che vuole rappresentare, è il primo fondamentale personaggio del romanzo. Con i suoi bollettini sanitari, le ordinanze prefettizie, le inquietudini, le leggerezze, lo stato di perenne incertezza sulla durata dell’epidemia e dei provvedimenti, lo sfinimento dei medici e delle squadre volontarie di soccorso, i funerali negati, l’impaurita disciplina e l’altalenante emotività, è proprio questa la voce che noi lettori dei giorni del Coronavirus andiamo a cercare, raccogliendo analogie e discordanze.
Da questa moltitudine si distingue una manciata di personaggi che sostengono la trama e ne arricchiscono il significato allegorico.
Bernard Rieux è un giovane medico che con umanità, competenza, concretezza e testardaggine si batte senza sosta per salvare il salvabile. “L’essenziale era fare bene il proprio lavoro”. “Non possiamo contemporaneamente curare gli uomini e sapere. Quindi occupiamoci di curare gli uomini il più in fretta possibile. E’ questa la cosa più urgente.”
Raymond Rambert è un energico e ambizioso giornalista, che si trova a Orano per lavoro allo scoppio dell’epidemia e, impossibilitato a ricongiungersi con i suoi affetti, è l’emblema degli esuli, delle persone e delle famiglie improvvisamente separate dal dilagare del male. “In realtà soffrivamo due volte – della nostra sofferenza e poi di quella che immaginavamo negli assenti, figli, moglie o amante”. Le numerose, appassionate pagine che Camus scrive su questa umanità divisa da una barriera ostile e impenetrabile (nel ricordo tragico dei campi di concentramento) ci fanno rabbrividire al ricordo di tutti i Muri, da Berlino in poi, che sarebbero stati costruiti, progettati o semplicemente vagheggiati nei decenni successivi.
L’onesto impiegato comunale Joseph Grand è un ometto triste, insospettabilmente romantico, alla perenne ricerca delle parole giuste, una persona rispettabile come ce ne saranno sempre, di quelle che il male non riesce proprio ad eliminare.
Il suo vicino di casa Cottard, al contrario, vive di espedienti, nel torbido prospera e lucra, teme il ritorno alla normalità, che lo rende scontroso e guardingo. Il disordine, invece, gli dona lucentezza e affabilità.
Il giudice Othon, algidamente disumano nella fanatica comprensione del suo ruolo, nella disgrazia più prevedibilmente trova un’occasione di redenzione.
Infine c’è il misterioso Jean Tarrou, il cui confronto con Rieux nel finale del romanzo ci fornisce la chiave per la sua interpretazione.
Intellettuale ed idealista ormai disilluso, Tarrou si trova in un vicolo cieco: la peste ce la portiamo dentro, è praticamente impossibile evitare di contagiare qualcuno (“allora ho capito che, almeno io, anche nei lunghi anni in cui pure credevo con tutta l’anima di lottare conto la peste, non avevo mai smesso di essere un appestato”), nel combattere il male si rischia di generare altro male (“ho scoperto che avevo acconsentito indirettamente alla morte di migliaia di uomini, che avevo addirittura provocato quella morte trovando buone le ragioni e i principi da cui fatalmente era conseguita”) e si può solo scegliere tra essere flagello o essere vittima. La terza categoria, quella dei veri medici, è la più rara, ed è la strada più difficile.
Un po’ più semplice, paradossalmente, è ambire alla santità, magari una santità senza Dio, fatta di pura compassione, ossia un immolarsi dalla parte delle vittime per giungere infine alla pace.
Il dottor Rieux, obietta: “Non provo granché interesse, credo, per l’eroismo e la santità. Quel che mi interessa è essere un uomo”.
Scrivendo nel 1947, sulle macerie provocate dal Male assoluto, in un periodo di grande tensione ideale e di scontro ideologico, Camus vuole ammonirci contro la tentazione di costruire la società perfetta, quella in cui il male sia definitivamente estirpato: è una speranza vana, fonte di ulteriori sofferenze e distruzioni, come la Storia ha ampiamente dimostrato. Tra l’intransigente purezza della santità e tutti i limiti di un’umanità imperfetta, meglio la seconda.
“Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice”.

Letto nella traduzione di Yasmina Melaouah, per Bompiani, 2017 - disponibile anche in Ebook
Molto bella la lettura di Remo Girone, ascoltabile su Rai Play Radio, che segue la precedente traduzione di Beniamino Dal Fabbro. Link: La peste di Albert Camus letto da Remo Girone (Rai Play - Ad Alta Voce) 

venerdì 6 ottobre 2017

Saluti



Darlington Hall, ottobre 2017

E' con grande soddisfazione ed orgoglio che sono lieto di condividere con voi la notizia, diffusa da poche ore, che Mr. Ishiguro ha vinto, tanto meritatamente quanto inaspettatamente, il premio Nobel per la Letteratura 2017. 

Ora si può davvero dire che il cerchio si è chiuso e che ogni cosa può tornare al suo posto senza ulteriore indugio.

Ho già raccontato di come per la prima volta dopo tanti anni uscii dai protettivi confini di Darlington Hall, approfittando della benevolenza con cui  Mr. Farraday, il nuovo brillante proprietario, mi propose di allontanarmi per qualche tempo dalla dimora dove a lungo avevo servito sua signoria Lord Darlington, per andare alla scoperta del mondo esterno. Come noto, accettai la cortese offerta soltanto dopo aver realizzato che essa sarebbe stata una magnifica occasione per verificare cosa Miss Kenton avesse in mente e se ci fosse una seppur remota possibilità di riaverla in servizio con noi.

Quel viaggio fu un’esperienza  eccezionalmente istruttiva, per certi versi elettrizzante e illuminante, che mi diede nuova ispirazione per perfezionare il servizio che sono onorato di rendere nella casa alla quale dedico tutto il mio impegno e tutte le mie energie.

Ho raccontato queste cose in un primo “post”, circa quattro anni fa, a cui ne sono seguiti numerosi altri. E’ sorprendente come la vanità, la curiosità e altre debolezze umane ci portino invero a scoprire che il mondo è un luogo pieno di bellezza e che anche la sua pallida rappresentazione virtuale, il cosiddetto “web”, può essere incredibilmente interessante se solo si ha l’accortezza di proteggersi dai pochi facinorosi che diffondono miasmi e veleni, finendo solo con il nuocere a sé e agli altri. 
Resto convinto, forse ingenuamente, che la forza della parola prevarrà sempre sulla menzogna, la violenza e l’inganno.

Ora, dopo il prestigioso riconoscimento assegnato allo scrittore che benevolmente mi ha donato forma e vita e al quale sarò eternamente debitore, è tempo di tornare nuovamente a casa.

Auguro a tutti coloro che in questo tempo ho incidentalmente incontrato nel variegato mondo del web un buon proseguimento, felicità e pace.

Con rispetto,

Stevens