sabato 21 dicembre 2013

Ispirazione

"Il profano pensa che l'ispirazione sia qualche cosa di magico che chi scrive deve star lì ad aspettare, quando viene, e se viene. E' molto bello pensare al poeta che guarda il cielo azzurro in attesa dell'ispirazione. Ma non è così. Si scrive quando si vuole, e l'ispirazione, forse, non esiste. Come in tutte le cose, bisogna soltanto aver voglia di scrivere, averne piacere. Anche per stirare un mucchio di biancheria, o per fare una maglia con i ferri bisogna averne voglia e piacere, se no si lavora male e si sbaglia. Non è l'ispirazione che manca al poeta che guarda il cielo azzurro, è la voglia. E chi non ha voglia di scrivere, è meglio che lasci stare, è segno che non è il suo mestiere. A me piace scrivere. Ho scritto da per tutto, e e nelle condizioni meno confortevoli. Non mi occorre né solitudine né silenzio né scrivanie speciali. L'unica cosa di cui ho bisogno è la macchina per scrivere - una qualsiasi, anche la più scassata - perchè voglio vedere subito chiaro e ben allineato quello che scrivo..."

Giorgio Scerbanenco, Il falcone e altri racconti inediti

Ritmo umano

“Io difendo il ritmo umano: il tempo preciso, né più né meno, che serve per fare le cose per bene. Per pensare, per riflettere, per non dimenticare chi siamo”. 

 Luis Sepúlveda,  "Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza"

La ricetta per il sole - Phil Bosmans


Ogni anno, il mio collega Oscar prima della pausa natalizia è solito mandarci degli auguri che contengono pillole di saggezza. Questa volta ci ha mandato "Il sole ogni giorno" una poesia di Phil Bosmans, sacerdote e poeta belga. 
Oggi, 21 dicembre, è il solstizio d'inverno, giorno più corto dell'anno. E per le grigie giornate invernali, niente di meglio che ricordarsi di questa bella ricetta. :-)

Il sole ogni giorno
"Accetta ogni nuovo giorno come un dono e,
se possibile come una festa.
Non alzarti troppo tardi la mattina.
Guardati allo specchio, sorridi alla tua immagine
e dì a te stesso: "Buongiorno",
così sarai allenato per dirlo agli altri.
Se conosci gli ingredienti del sole,
puoi prepararlo tu stesso,
proprio come il pranzo quotidiano.
Prendi una dose abbondante di bontà,
aggiungi una bella presa di pazienza,
pazienza con te stesso e con gli altri.
Non dimenticare un pizzico di umorismo,
per digerire gli insuccessi.
Mescolaci una buona quantità
di voglia di lavorare,
versa su tutto un grosso sorriso
e avrai ogni giorno il sole."

Phil Bosmans

La poesia di Todd - L'Attimo Fuggente (1989) di Peter Weir

SOSTIENE PEREIRA- FINALE


  


Dal romanzo più bello di Tabucchi. E' sempre possibile fare qualcosa. Tutti possono fare qualcosa. Non è mai troppo tardi per cambiare.

Mandela Day SIMPLE MINDS

venerdì 20 dicembre 2013

La famiglia Winshaw



La famiglia Winshaw (titolo originale: What a carve up!) è un romanzo scritto da Jonathan Coe nel 1994.

E’ anche una sassata contro alcuni guasti prodotti dalla dottrina Thatcher.  Vent’anni dopo, quando la Lady di Ferro è ormai passata a miglior vita, il bersaglio ha perso d’attualità, ma la forza della sassata rimane intatta.

E poi, a ben vedere, più che la Thatcher, vengono  presi di mira alcuni tipi umani che sul thatcherismo hanno basato la loro fortuna, personaggi avidi, calcolatori, senza scrupoli.

Si tratta  comunque di un romanzo, non di un saggio politico, quindi non ci si può aspettare fini analisi sociologiche o sottili distinzioni; la “maschera” contro cui vengono scagliate le pietre deve essere ben riconoscibile.

Il termine che userei per sintetizzare questo romanzo è “orrore”.

L’orrore parte adagio, avvolto in un alone di mistero su fatti accaduti durante la seconda guerra mondiale. Si insinua in una cena all’inizio degli anni ’60, tenuta nella sinistra Winshaw Tower, che ci fornisce l’occasione di conoscere tutta la famiglia al gran completo: ognuno dei suoi membri contribuisce a suo modo a rendere plumbea e sgradevole l’atmosfera.

Poi l’attenzione si sposta su una piccola e modesta famigliola, dove troviamo l’io narrante Michael Owen ancora bambino durante una festa di compleanno in compagnia di padre, madre e nonno. Seguiamo la loro giornata trascorrere nella tenera e dolce felicità velata di tristezza che è propria dei semplici.  Michael è un fan di Yuri Gagarin, il primo uomo a volare nello spazio. Casualmente la famigliola in gita trova una locandina di un cinema , dove si preannuncia che al termine della commedia horror Sette Allegri Cadaveri si sarebbe proiettato “Yuri Gagarin, il film russo ufficiale a colori”.

 La trama e i personaggi di Sette Allegri Cadaveri (titolo originale: What a Carve Up!, come il romanzo, la cui traduzione in questo contesto potrebbe essere "Che Macello!") da quel momento rappresenta un fiume carsico che accompagna la narrazione per riemergere con prepotenza nel pirotecnico finale.

Ma prima occorre attraversare gli anni ottanta e passare attraverso una grande varietà di orrori. Il mercante d’armi, il banchiere vizioso e senza scrupoli, il politico cinico e amorale, l’imprenditrice avida e spietata, la giornalista prezzolata e spregiudicata.

E pagine piene di orrore sono anche quelle dedicate ai disastri provocati dai tagli alla spesa sanitaria, agli ignobili traffici politici e mercantili che gravitano attorno a Saddam Hussein e all’Iraq, agli allevamenti intensivi di bestiame, con annesse cattiverie e mostruosità. Le pagine dedicate alla “moderna” industria alimentare puntano dritto allo stomaco e colpiscono duro.

Lo stesso Michael percorre la sua personale valle orrida, fatta di ossessioni maniacali, persiane abbassate, aria viziata e avanzi di cibo. Il suo destino e quello dei Winshaw si incrociano più volte. Soprattutto la sua vita si incrocia e si sovrappone al film What a Carve Up! e alla storia di Yuri Gagarin.

Non a caso,una volta che l’orrore raggiunge lo zenit sciogliendosi nel grottesco, il romanzo si conclude con un capitolo emblematicamente intitolato “con Yuri verso le stelle”.

Jonathan Coe si diverte a fare il gran burattinaio e infierisce contro le maschere che più disprezza. Qua e là c’è un pizzico di autocompiacimento di troppo nell’esibire il perfetto sincronismo degli ingranaggi.

venerdì 13 dicembre 2013

Il signore degli anelli


Ho letto Il signore degli anelli vent'anni fa. Iniziai durante una vacanza in Norvegia, particolarmente intonata con l'atmosfera fiabesca del romanzo (che trasse ispirazione anche da miti e leggende di quelle zone) e naturalmente proseguii per un bel po' dopo. Ero già grandicello e in quel periodo si erano già messe da parte interpretazioni e discussioni un po' stravaganti sul significato e sui contenuti di quest'opera. Io me la sono gustata come una pura e avvicente lettura di evasione, molto coinvolgente, che ricordo ancora abbastanza bene nonostante la mia lacunosissima memoria. Ho visto solo qualche spezzone del film, giusto per la curiosità di vedere come avevano rappresentato Gollum, Gandalf, Frodo e tutti gli altri. Non molto diversi da come me li ero immaginati. Il Natale, con la sua atmosfera magica, può dare l'occasione giusta per gustarsi una lettura di questo tipo.
Un bel viaggio nella Terra di Mezzo, per allontanarsi un po' da forche, forconi e forcaioli vari della Terra di Oggi. Almeno Sauron non aveva la Jaguar...


sabato 7 dicembre 2013

Adesso vado...

Paul Cézanne - I giocatori di carte


"Alla fine aveva un modo elaborato di andar via. Era una specie di cerimonia, e impiegai un po' di tempo a capire come funzionava. La prima volta disse: <va bin>, mi sa che adesso vado; così mi alzai per aprirgli la porta e salutarlo. Lui mi guardò strano e chiese: hai tanta fretta? Io no, risposi. Chiusi la porta e mi rimisi a sedere.
Quella sera scoprii che, prima di andarsene davvero, doveva dire <<adesso vado>> almeno cinque o sei volte, e poteva passare un'ora nel frattempo, un altro caffè, un'altra storia, un'altra bottiglia di vino".
 Paolo Cognetti, "Il ragazzo selvatico"

Il programma di Konstantin Levin

"E continuerò ad arrabbiarmi col cocchiere Ivan, continuerò a discutere, a esprimere i miei pensieri, e continuerà a esserci un muro tra il sacrario della mia anima e gli altri, compresa mia moglie, e continuerò ad accusare lei per le mie paure e a pentirmene, continuerò a non comprendere con la ragione perchè prego, e perchè pregherò ancora; ma la mia vita, adesso, tutta la mia vita, in ogni suo istante, indipendentemente da quello che potrà accadermi, non solo non sarà più insensata come prima, ma avrà l'indubitabile senso del bene che ho il potere di conferirle"

Lev Tolstoj - Anna Karenina - ultima pagina.

Sting - Fields of Gold

giovedì 5 dicembre 2013

Walt Whitman



Di molti scrittori è noto il perfezionismo maniacale, unito al carattere schivo e riservato. Italo Calvino invitava i giovani a non lasciarsi abbagliare dal fascino del “lavoro creativo”, avvertendo che la creatività richiede una dura e solida preparazione di base, senza la quale le “ali di farfalla” rimarrebbero un impiastro insignificante e inconsistente. Meglio dedicarsi prima alla ruvida tavolozza e legno e poi, soltanto poi, alle “ali di farfalla”, senza mai abbandonare disciplina e sobrietà. Calvino è perfetto per ricordare ai giovani che fatica e preparazione sono il fondamento di qualsiasi speranza di successo (letterario e non solo).  E ogni giovane solitamente dispone di due genitori, un numero variabile di insegnanti, qualche amico sincero, un parroco, qualche zia o nonno saggio, che gli ricordano ogni giorno questa semplice ed efficace regola di vita.
Ci sono invece scrittori un po’ vanesi, megalomani, allergici al lavoro e alla fatica, dei tipi un po’ ridicoli che si paragonano a Dio, che declamano sulla spiaggia i versi di Omero, che ben prima di Amazon hanno iniziato a stampare e vendere in proprio le loro opere, che fingono di aver compulsato libri mai letti o aperti a stento, che sono così: simpaticamente e oziosamente irriverenti, geniali, forse pessimi scrittori, pessimi poeti, cattivi maestri, eppure grandi nel perseguire il proprio sogno senza curarsi dei risolini tristi delle persone che hanno rinunciato ai propri, di sogni.
Walt Whitman era uno di questi cattivi maestri, pessimo poeta, inguaribile scansafatiche, “persino” pederasta. Oggi la sua bella barba ottocentesca è stampata in eleganti volumi rilegati, le sue poesie sono incluse nelle antologie scolastiche, la sua opera ha ispirato film di successo. E in quanto all’omosessualità, bé oggi fa decisamente “curriculum”.
“Ma certo”, gracchiano i censori dei sogni altrui, “Whitman è Whitman, non vogliamo mica sostenere che tutti hanno i requisiti!” No, infatti non tutti hanno i requisiti. A tutti è data la capacità di sognare, ma non tutti hanno le doti o la fortuna per realizzare il loro sogno. Ma Whitman e lì a ricordare ai giovani una cosa molto semplice: provateci. Provateci fin che siete in tempo, e credeteci. Da cattivo maestro può permettersi di sfidare per una volta i vostri genitori, gli amici saggi, gli insegnanti, i nonni e le zie per dirvi: non rinunciate troppo presto a combattere, seguite le vostre passioni, altrimenti inacidirete come quella vecchia di De Andrè: …”così una vecchia mai stata moglie, senza mai figli, senza più voglie, si prese la briga e di certo il gusto di dare a tutte il consiglio giusto…”

Nazim Hikmet, Il più bello dei mari

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nosti giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l'ho ancora detto.

Nazim Hikmet

sabato 30 novembre 2013

Io sono Malala

Io sono Malala è un libro molto toccante per tanti motivi: per le vicende umane che racconta, per l'ottimismo, la fede e la voglia di "normalità" che contiene, e perchè ti porta proprio dentro i fatti che generalmente, nei giornali e in TV, ci si limita a sfiorare frettolosamente dall'esterno.
In più si sente il fascino del contatto con una cultura diversa dalla nostra, con cui sarebbe bello confrontarsi e interagire senza barriere, senza odio, senza violenza.
Si ha una conferma in più (se ce ne fosse bisogno) che il fondamentalismo religioso ha poco a che fare con la religione e invece molto con la politica, con il potere che strumentalizza e manipola il bisogno di fede di tanta povera gente.
E' un peccato che a questa ragazza non sia stato assegnato il premio Nobel per la pace, come sembrava possibile. Non sarebbe stato nè fuori luogo, nè esagerato. E avrebbe dato un segnale bellissimo: si possono amare le proprie tradizioni, la propria cultura, il proprio paese, si può essere profondamente religiosi e attaccati alle proprie radici senza che questo debba necessariamente portare a chiudersi, a respingere gli altri, a erigere muri, barriere, steccati fisici o mentali che servono soltanto a produrre infelicità, violenza e oppressione.


aggiornamento: a un anno di distanza dalla pubblicazione di questo post, nell'ottobre 2014, Malala Yousafzai è stata insignita del premio Nobel per la Pace, a 17 anni, la più giovane di sempre.

mercoledì 27 novembre 2013

Bookblog e scrittori dilettanti: la passione che non guasta


 Sabato scorso ho assistito al dibattito "Bookblog. editoria e lavoro culturale" che si è svolto nell'ambito di Bookcity a Milano. Non voglio fare il resoconto dell'incontro, perchè ne trovate una sintesi efficace qui:   
http://sonodunquescrivo.blogspot.it/2013/11/bookblog-i-nuovi-attori-culturali.html

Si è parlato di blog letterari, iniziando con l'esposizione dei dati di un interessante sondaggio che li riguarda. Poi però il dibattito si è concentrato sulla punta dell'iceberg, senza più curarsi di tutto ciò che sta sotto.
Si è quindi ampiamente dibattuto di "indipendenza" o di possibilità di "condizionamenti" delle case editrici sui blogger, di "affidabilità" delle proposte e dei giudizi, del diverso patto di fiducia che lega il lettore al blogger piuttosto che al giornale a pagamento, della possibile o problematica collaborazione tra business e cultura, della sostenibilità di lavori "militanti" e non retribuiti e anche del fatto che una professione debba necessariamente essere retribuita per considerarsi tale.
Sono rimasti un po' in ombra i blog individuali, che sono invece la maggioranza e che non ambiscono a competere con l'editoria specializzata, ma soltanto ad esprimere e a coltivare una personale passione.
In fondo, si tratta della stessa passione e della stessa volontà di espressione che anima tanti scrittori dilettanti e aspiranti scrittori. 
Personalmente non condivido il giudizio negativo e un po' snobistico che spesso viene dato su chi prova a scrivere il suo romanzo, le sue poesie, i suoi racconti.
Si dice che si tratti di una mania soprattutto italica e che l'Italia abbia quasi più scrittori che lettori. In effetti, in Italia si legge pochino, ma questo non c'entra molto con la quantità di persone che si mettono a scrivere. 
Forse ci sono maggiori collegamenti con le difficoltà ad esprimersi che si incontrano in diversi ambiti sociali: il lavoro, la scuola, la politica, la comunità.
Voglio dire che tutto questo "fai da te" culturale, che unisce scrittori a tempo perso, blogger letterari e amministratori di pagine facebook dedicate ai libri, può anche essere visto come un indice della difficoltà che i "competenti" e coloro che si occupano professionalmente di cultura incontrano nel tentare di appassionare e di coinvolgere persino chi sarebbe molto disposto a farsi coinvolgere.
Inoltre, anche nella cultura come in altri campi (penso allo sport ad esempio) è proprio il mondo dilettantistico quello dove si trova ancora entusisasmo e passione sincera. Ben vengano quindi i blog letterari e bene, benissimo se si scrive tanto. Preferisco che il mio Paese sia un'agorà vispa, frizzante e piena di voci, magari anche un po' "caciarona", piuttosto che un tempio dove pochi sacerdoti officiano i loro sacri riti tra il silenzio degli astanti.

domenica 24 novembre 2013

Re Artù, Guerra e Pace e i generali

Venerdì scorso c'ero anch'io al tavolo di re Artù e ho ascoltato con sconforto l'ennesima filippica contro la "burocrazia". Alla corte di re Artù, chiunque riflette per più di tre secondi di seguito è un bieco burocrate. Servirebbe che qualcuno, diverso dai soliti grilli parlanti, avvisasse sua maestà che il suo regno sicuramente non morirà di burocrazia, ma piuttosto di superficialità. Purtroppo, al tavolo di re Artù, grilli parlanti a parte, scarseggiano i cavalieri e abbondano i cortigiani. 
E' tutto già scritto:quando la corte se ne sarà andata, lucida e sgargiante più che mai e senza vergogna, sotto le macerie rimarranno i grilli parlanti e i poveri diavoli, come sempre.

Chissà se a corte si legge. Domanda retorica. Leggere è roba da burocrati, la carta puzza. Ci sarebbero gli ebook, ma non c'è tempo, mica si può perdere la Champions League, altrimenti di cosa si parla il giorno dopo? 
Peccato, occasione mancata: mi piacerebbe che leggessero Guerra e Pace. Mi piacerebbe sparargli nei loro Blackberry e nei loro iphone qualche passo come questo:

 “ Li chiamano geni solamente perché gli uomini di guerra sono circondati di prestigio e di potere, e perché ci sono sempre masse di mascalzoni che adulano chi ha il potere, attribuendogli le qualità del genio, che non gli competono affatto. Al contrario, i migliori generali che ho conosciuto io, sono tutti uomini stupidi o distratti. Il migliore è Bragatiòn, perfino Napoleone l’ha riconosciuto. E lui, poi, Bonaparte! Me lo ricordo, sul campo di Austerlitz: con quel suo volto così compiaciuto, così limitato. A un buon condottiero, non soltanto non occorrono né il genio ne una qualche particolare qualità, ma al contrario, bisogna che gli manchino le più alte, le migliori qualità umane: l’amore, la poesia, la tenerezza, il dubbio filosofico, che vuol scoprire la verità. Bisogna che sia un individuo limitato, fermamente convinto che quel che lui fa sia molto importante (altrimenti gliene mancherà la pazienza), e soltanto allora sarà un condottiero valoroso. Ma guai se è un uomo, se ama qualcuno, se si affeziona a qualcuno, se si domanda cos’è giusto, e cosa no. Si capisce perché fin dall’antichità ci si è inventati, per costoro, la teoria del genio: perché loro sono il potere. Ma nelle azioni di guerra il merito del successo non spetta a loro, ma all’uomo che nelle file grida: siamo perduti! O che grida: urrà! E soltanto lì, solo nelle file si può prestar servizio con la certezza d’essere utili a qualcosa!


Così pensava il principe Andréj, ascoltando i discorsi,e si riscosse soltanto quando Paulucci lo chiamò e tutti stavano già per andarsene.
L’indomani, alla rivista, il sovrano domandò al principe Andréj dove desiderasse prestare servizio e il principe Andréj fu perduto per sempre agli occhi del mondo della corte, perché non chiese di restare presso la persona del sovrano, e chiese invece l’autorizzazione a prestare servizio nell’armata”.

Lev Tolstoj – Guerra e Pace



sabato 23 novembre 2013

Anna Karenina



Se Anna Karenina fosse soltanto la storia di un adulterio finito male, non avrebbe richiesto più di ottocento pagine per essere raccontato, nemmeno nel XIX secolo.
E, nonostante il titolo, è riduttivo considerarlo  il romanzo pieno di umana comprensione sui tormenti di una donna oppressa da una società ipocrita e perbenista.
Da una parte Anna Karenina  ci appare come una farfalla  imprigionata dietro un vetro: Tolstoj descrive minuziosamente, e dall’interno, il suo penoso affannarsi e dibattersi per tentare una via d’uscita, fino ad esaurirsi e scivolare nell’abisso dell’autodistruzione. Nello stesso tempo  dipinge un grandioso affresco dei tipi umani che compaiono al di là del vetro, figure e personaggi certo presenti nella società russa del suo tempo, ma in qualche modo paradigmatici di tipi umani che sono sempre esisti e sempre esisteranno.
In più, attraverso il personaggio di Konstantin Levin, ci anticipa parte dei suoi personali tormenti, ci fa intravedere quella crisi interiore che in lui scoppierà solo qualche anno più tardi, portandolo a scelte di vita importanti e piene di conseguenze per sé e per i suoi familiari.
La cosa affascinante è che tutti i personaggi principali del romanzo possono essere visti come degli “opposti” ad Anna, ognuno per motivi diversi.
Il primo personaggio che troviamo in scena è Stepan Arkadevic Oblonskij, il fratello di Anna, il farfallone capace di vivere con leggerezza e di farsi perdonare i suoi numerosi tradimenti, l’astuto e ozioso funzionario che ha fatto parte del ventre molle della burocrazia di ogni tempo e di ogni paese, l’amicone gioviale, generoso e sincero,il viveur spensierato e spendaccione,  il padre sempre pronto a giocare con i propri  figli, cui tutto concede.  E’ un vero artista nello schivare ogni fatica, ogni problema, ogni fastidio. Lascia volentieri alla moglie la parte più dura e faticosa del menage familiare. Stepan Arkadevic scivola con leggerezza nella vita e nelle sue contraddizioni, al contrario di Anna, che ci affonda. Tutti abbiamo conosciuto almeno uno Stepan Arkadevic nella nostra vita, e anche più di uno.
La moglie di Stefan Arkadevic è Dar’ja Aleksandrovna (Dolly). Il suo modo di essere opposta ad Anna è tutto nel suo stare con i piedi ben saldi a terra. Donna pratica, concreta, laboriosa, senza grilli per la testa , Dolly porta sulle sue spalle tutto il peso di una famiglia e di un marito svagato e cornificatore.  E’ l’angelo del focolare, che ascolta tutti, che comprende tutti , ha una parola per tutti. Un angelo fragile ed energico, sanguigno e ogni tanto sanguinante, che piange, si arrabbia, pensa di non farcela e invece riesce sempre. Tutto la divide da Anna, due modi opposti di essere donna.  Dolly ne è allo stesso tempo affascinata e contrariata, un po’ la compatisce e un po’ la invidia. Dolly vede in Anna cosa avrebbe potuto essere se non fosse stata Dolly.
Dolly è una delle sorelle di Katerina  Ščerbackaja (Kitty). Troviamo Kitty all’inizio del romanzo, ragazzina.  Tutte le ragazzine di ogni epoca e di ogni latitudine del globo sono state Kitty almeno una volta nella loro vita. Lo sono state quando si sono innamorate dei Beatles, dei Duran Duran e dei One Direction. Nella Russia del XIX secolo c’erano invece  il valzer, la polka e giovani ufficiali che facevano volare la loro fantasia. Piccole donne crescono e anche Kitty passa attraverso cocenti delusioni, scelte sbagliate, esperienze che le forgiano il carattere.  E quando arriverà ad innamorarsi di un uomo difficile, ombroso, con un fitto strato di rovi a proteggere la sua ricchezza d’animo, avrà già acquisito la personalità necessaria a fargli dare il meglio di sé. Riuscirà ad essere meravigliosa e immensa quando si troverà, proprio lei apparentemente così fragile, a prestare le ultime cure al cognato Nikolaj Dmitrievic, un reitetto  respinto da tutti.  Kitty è la storia di una formazione. La conosciamo da ragazzina, abbagliata dalla lucentezza di Anna, che le appare donna piena di vita, affascinante,  matura, eccezionalmente dotata di savoir faire-. Pagina dopo pagina seguiamo le due opposte parabole e alla fine, quando tornerà la quiete dopo la tempesta, sarà proprio la stella di Kitty a brillare forte nel cielo.
Anche quella di Konstantin Dmitirevic  Levin è la bella storia di un’evoluzione sofferta e ben riuscita, che fa da controcanto all’involuzione e allo smarrimento di sé impersonate da Anna.  Konstantin è l’eroe positivo del romanzo  (sue saranno anche le parole conclusive, lo sguardo avanti dopo la tragedia).  L’uomo che partendo dagli anfratti bui in cui aveva nascosto la sua anima , riesce a ritrovare se stesso, perché inizia una sua personale e faticosa ricerca, ma soprattutto perché trova la donna giusta. Un amore che salva, contrapposto ad un amore che travolge e distrugge.
Aleksej Karenin, intelligente, colto, abile, onesto, potente, rispettato e stimato da tutti. E’ tuttavia un uomo che la vita ha reso completamente anaffettivo.  Il tradimento di Anna è come un colpo di vento che spalanca le finestre e scompiglia l’ordine perfetto della sua vita senza vera vita. E’ un fastidioso accidente che vorrebbe scacciare, allontanare al più presto perché troppo impregnato di materia,  e Karenin invece si trova a suo agio soltanto nel suo  ordinato universo mentale. Ovviamente la sua prima preoccupazione va al decoro, all’etichetta, al  buon nome. Eppure non è un ipocrita: è uomo sinceramente attaccato a buoni principi, che  cerca di essere giusto e persino generoso. La  sua predisposizione a ricercare il bene lo porterà, in una notte sconvolgente,  a superare i vincoli imposti dal perbenismo e dal moralismo benpensante e a porgere evangelicamente l’altra guancia, a dare una tale prova di altruismo e magnanimità da soverchiare completamente Anna e il suo amante. Una ne rimarrà soffocata, confusa e annientata, l’altro sarà spinto a tentare il suicidio. Ma Karenin non capisce l’unica cosa che invece sarebbe necessario capire: per riconquistare Anna non gli è richiesto di trasformarsi in un campione di magnanimità,  ma semplicemente di  amarla. E invece  lui è uomo completamente incapace di amare, questo è il suo modo di essere opposto ad Anna, questa è la sua personale tragedia, da cui derivano tutte le altre.
Infine Aleksej  Vronskij: l’altra metà della mela di Anna, il seducente e fascinoso  tambeur de femme, l’ufficiale cinico e rapace. Ma Anna fa sul serio e lui rimane invischiato suo malgrado. I due sono fatti apposta per trovarsi e rovinarsi. Eros e thanatos,  amore e morte  all’opera, ma con una differenza. Basta solo un briciolo, un infinitesimo di convinzione in più o in meno e ci si ritrova su due sponde opposte. Entrambi, in momenti diversi, obbediscono all’impulso di togliersi la vita. Vronskij  lo fa per primo, ci crede davvero ma fallisce e quell’episodio strappa  definitivamente Anna dai resti della sua vita precedente. Mentre affonda, Vronskji afferra la mano della sua donna e la trascina con sé.  Anna invece non fallisce e non trascina il suo amante con sé.  Lo restituisce piuttosto alla vita, naufrago risputato dal mare dopo la tempesta, e al senso di colpa.
Questo per limitarci alle figure in primo piano, ma nell’affresco c’è molto altro. Anna è anche madre e alcune delle scene più toccanti del romanzo riguardano il rapporto con il figlio Serëža. Ci sono le principessine dei circoli mondani, le nobildonne bigotte, i latifondisti, i contadini, i professori universitari, i politici,gli ufficiali e tutto quanto occorre per far scorrere la storia con la maestosa e tranquilla bellezza del Volga.

venerdì 22 novembre 2013

22/11/63

A cinquant'anni esatti dall'assassinio di JFK, si moltiplicano le commemorazioni, gli articoli, gli interventi. 
Anche in futuro si continueranno a scrivere libri e a girare film su un mistero mai risolto, un personaggio controverso e carismatico, un periodo importante per la nostra storia. 
JFK è entrato nella leggenda ben oltre i confini degli USA non solo per via della guerra fredda e della politica da superpotenza, ma anche per il modo innovativo di comunicare, per il sostegno alle cause dei diritti civili e soprattutto per i fiumi di parole spese attorno alla sua morte e sui possibili, probabili o inverosimili intrighi che l'hanno provocata. In più, per rendere più sexy la miscela, ci sono le donne: da Jacqueline a Marilyn a tutte le (molte) altre. E infine: la lunga serie di sventure che si è abbattuta sulla famiglia Kennedy da allora in poi.
Quanto ha influito quell'omicidio sul corso degli eventi? Come sarebbe il mondo se non fosse mai successo? Stephen King riprende l'idea dell'effetto farfalla, già espressa in un racconto fantascientifico di Ray Bradbury, secondo cui un minimo cambiamento nel passato è in grado di provocare enormi conseguenze nella storia dell'umanità. In campo scientifico invece la teoria viene esposta dal fisico Eward Lorenz, che durante una conferenza ipotizzò che il battito d'ali di una farfalla in Brasile potesse provocare un tornado nel Texas, a seguito di una lunga catena di eventi.
22/11/63 è il romanzo che racconta di uno strano tentativo di impedire l'assassinio del presidente Kennedy. Il tentativo infatti viene effettuato nel 2010. Come è possibile? Per scoprirlo bisogna essere disposti a fare una cavalcata di 768 pagine attraverso l'America degli anni '50, ad acquisire familiarità con "la buca del coniglio", a riflettere qualche secondo sul tempo, le occasioni mancate, le trappole del destino. Cosa troverete al vostro ritorno? Non sarò certo io a rovinarvi la sorpresa: buon divertimento!

giovedì 14 novembre 2013

Lettera di Bruno Conti al figlio Daniele



"Pensavo di averle vissute e provate tutte, poi mi ritrovo a 58 anni sul divano davanti alla tv con le lacrime agli occhi, e tua madre accanto, non spiccica parola, mi guarda incantata e troppo emozionata e felice per parlare e rompere l’incantesimo. Già ci avevi fatti piangere l’anno scorso con Brunetto, ora Manuel. La stessa scena, la stessa gioia. Perché quell’abbraccio racconta una famiglia, la nostra famiglia. Perché tutti conoscono il grande calciatore che sei diventato, in pochi però sanno quanto tu sia un grande uomo, un grande figlio, un grande padre.

Mi capita spesso di ripensare a quella mattina in cui mi chiamò il direttore sportivo della Roma Franco Baldini per comunicarmi la tua cessione al Cagliari in comproprietà per una stagione. Proprio in Sardegna, pensai, la terra in cui io e tua madre ci eravamo innamorati nell’estate dell’82. Ero felicissimo, anch’io poi mi sono dovuto fare le ossa al Genoa prima di giocarmela nella Roma. Forse all’inizio, in cuor mio, speravo di rivederti presto con la maglia giallorossa, e quel gol al Perugia sotto la Sud resterà un ricordo indelebile. Quindici anni dopo è andata in tutt’altro modo. Una storia diversa, forse più bella, di sicuro speciale. Hai fatto una scelta importante, la più difficile, ma alla fine hai vinto tu.

Ricordo i primi momenti al Cagliari, l’esordio, i sogni, le difficoltà. Per anni ti sei portato sulle spalle quel cognome pesantissimo, ingombrante. Soffrivo quando la gente ti paragonava a me, non era giusto. Col tempo però, hai zittito tutti, poi li hai conquistati sul campo. Col talento, con la forza, col carattere. E in questo si, siamo uguali perché entrambi siamo testardi e corretti allo stesso tempo, non cerchiamo sotterfugi, guardiamo tutti in faccia a testa alta con la cultura del lavoro e della famiglia.

I due gol al Torino mi hanno ricordato quello al Napoli nel 2008. Proprio in questi momenti vengono fuori gli uomini duri. E da capitano vero a fine partita, ti ho ascoltato commosso, hai dedicato la vittoria ai compagni e ai tifosi.

Forse dal vivo io e tua madre non ti abbiamo ma realmente detto quanto siamo orgogliosi di te. Oltre ad aver onorato il nostro sangue in campo, hai portato avanti, grazie anche a tua moglie Valeria, i valori della nostra famiglia in una società complicata, problematica e superficiale, come faceva tuo nonno Andrea, muratore e padre di sette figli. E per questo, figlio mio, non smetteremo mai di ringraziarti".

mercoledì 13 novembre 2013

Giornata Mondiale della Gentilezza

Oggi si è celebrata la Giornata Mondiale della Gentilezza.
Quando ho sentito questa notizia per radio, mi è venuto in mente un vecchio racconto di Stefano Benni, inserito nella raccolta “Il bar sotto il mare”.
Si parlava di un capitano di una baleniera, un giovane ufficiale particolarmente attaccato all’ordine, alla pulizia, alla disciplina che si trovava alle prese con una ciurma molto riluttante a comportarsi in mare come se ci si trovasse “in un salotto inglese”.
Siccome il capitano costrinse i suoi uomini a rivolgersi l’un l’altro educatamente, loro decisero di prenderla sul ridere e così sulla nave si potevano sentire dialoghi come questi (vado a memoria, perdonatemi se non li riporto alla lettera):
“Vuole il qui presente molto figlio di p…smettere d i sputacchiare il tabacco controvento, acciocché la sua saliva non finisca sui miei abiti quasi lindi e immacolati?”
“Ma certo nobiluomo, che il cielo l’affoghi per la sua cortesia. Però tolga la sua delicata manaccia dal mio viso altrimenti le spacco seduta stante il suo insigne deretano.”
Ecco, sono pronto a scommettere che nella “Giornata Mondiale della Gentilezza” ci sia stato un discreto proliferare di simili siparietti goliardici....