lunedì 16 settembre 2013

TANGO


Più di tre anni fa scrissi questo racconto, sotto l'influsso di tre esperienze diverse: il ricordo, e forse anche la nostalgia, delle lezioni di ballo seguite per qualche tempo e con scarso profitto  con mia moglie Norina, l'inizio di una nuova esperienza lavorativa nel settore delle acquisizioni societarie, e infine una (allora) gradevole trasmissione televisiva che a quell'epoca seguivo abbastanza assiduamente (Ballando con le stelle) prima che virasse nel trash.
Cosa c'entri la finanza con il ballo, e soprattutto con il tango, può sembrare un mistero. La memoria può correre ai famigerati "Tango Bonds", che tanti dispiaceri hanno dato a parecchi risparmiatori italiani, ma garantisco che si tratta di una falsa pista.
Per scoprire quali tortuosi percorsi portano a insospettabili collegamenti tra ambiti e ambienti diversissimi non resta che leggere il racconto.... :-)



TANGO (Febbraio 2010)
Di tutti gli avvenimenti a cui mi è capitato di assistere in trent’anni di servizio alla Betapac, primaria azienda produttrice di involucri per surgelati, il più memorabile è senza dubbio l’improvvisa follia che colpì il ragionier Fortini, una mattina di maggio dell’anno 2005.

Tarcisio Fortini era uno scapolo quarantenne molto riservato, da due anni direttore amministrativo della Betapac e tutto il personale lo conosceva soprattutto per due cose: la memoria di ferro e la timidezza esagerata. Era un uomo che pareva doversi scusare in ogni momento di essere al mondo e infatti si scusava con tutti per ogni cosa e in ogni circostanza, tanto che c’è chi giura di averlo sentito scusarsi persino con gli oggetti, quando gli accadeva di urtarli accidentalmente.

D’altra parte, quante cose si sono dette dopo quella mattina?

Ognuno deve trovare per forza una spiegazione dei fatti. Ma certi fatti non si spiegano, semplicemente accadono.

Ricordo che Fortini arrivava in ufficio piuttosto presto, prendeva un autobus di quella linea Magenta-Milano che, scorrendo (si fa per dire) tra fabbriche di lampadari, cascine, depositi di spedizionieri e trattorie, ogni mattina scarica nelle banche e negli uffici milanesi migliaia di pendolari, di quelli che “vuoi mettere la soddisfazione di arrivare a casa la sera e vedere le stagioni che cambiano e la campagna e farsi un bel giro in bicicletta?”

La passione di Tarcisio Fortini invece non era né la bicicletta, né la campagna. La sua passione era il ballo.

Salsa, merengue, mambo, samba, e anche valzer, polka, mazurka, paso doble. Fortini ballava tutto, e straordinariamente bene.

Era piccolo, nero e ossuto, ma in pista diventava una forza della natura, dovevi proprio vederlo, gli occhi si accendevano, le spalle curve si raddrizzavano e i piedi sembrava non toccassero mai terra.

Qualche anno prima, per accontentare una fidanzata si era iscritto ad un corso di merengue, poi ci aveva preso gusto, tanto che della fidanzata si erano perse le tracce, mentre l’amore per il ballo non lo aveva mollato più.

Aveva iniziato a fare gare, prima piccole competizioni per dilettanti, poi sempre più impegnative.

Ma devo andare con ordine, altrimenti non si capisce. Perché all’inizio tutte queste cose del Fortini ancora non le sapevamo e le abbiamo apprese solo in seguito.

Lui parlava poco e raramente, e per lo più se ne stava curvo sui libri contabili e concentrato nella partita doppia.

Eppure qualcosa lo stava scavando dentro, lentamente, goccia dopo goccia.

C’era un ballo in particolare che da un po’ di tempo gli aveva catturato l’anima e che avrebbe voluto ballare sempre. Un ballo sensuale, morbido e grintoso, scattante e controllato, scandito da un ritmo binario, due passi lenti e due veloci, intriso di ebbrezza e di languore, di armonia e di contrasti. Il tango, naturalmente.

Fortini il tango lo avrebbe voluto ballare giorno e notte, per lui era una febbre, un confuso ricordo, un sogno stupendo che gli toglieva il respiro, era un dolore che lo opprimeva e non passava, una luce innaturale che non dava tregua.

Il tango gli entrò dentro come una malattia, un delirio, un morbo insidioso che cambiò completamente la sua vita.

Iniziò a vestirsi di nero, a profumarsi e a impomatarsi i capelli, si fece crescere i baffi e sviluppò una passione maniacale per le scarpe, non solo quelle bicolori di vernice, che usava per ballare, ma in generale tutte le scarpe, che diventarono la prima cosa su cui concentrava l’attenzione quando una persona entrava nel suo raggio visivo.

Giorno dopo giorno la sua camminata diventò più distesa ed elastica, lo sguardo si accese e poco alla volta Tarcisio Fortini acquistò l’aria inquieta di chi si è perso e ritrovato.

I corridoi della Betapac erano lunghi e illuminati da una luce stanca e livida. Cosa potevi pensare quanto ti imbattevi in quell’ometto allucinato, intento a provare di soppiatto un ocho adelante o un enrosque?

A me capitò persino di vederlo cimentarsi in una calesita davanti alla fotocopiatrice. Lui se ne accorse e mi sorrise.

Ormai era chiaro a tutti che qualcosa doveva essere successo e ognuno aveva la sua idea.

“Dev’essere proprio innamorato” commentò Rosalba dell’ufficio spedizioni.

“Macchè, quello è un dritto! Proprio adesso che il gioco si fa duro, il furbetto si imbosca e a noi tocca pure coprirlo!” sentenziò Verdolini dell’ufficio acquisti, con l’aria di chi aveva già sopportato abbastanza.

“Gli parlerò – si ripromise il direttore del personale – evidentemente è stressato, insomma non può continuare ad accentrare tutto il lavoro, deve dare più spazio ai suoi collaboratori, altrimenti fa male a se stesso e agli altri, guarda come si è ridotto”.

“E’ pazzo e deve levarsi dalle palle”, chiuse il discorso con l’abituale amabilità il ragionier Rubagotti, titolare della Betapac.

Gli eventi precipitarono poche settimane dopo, quando arrivarono gli inglesi.

Nel maggio 2005 Rubagotti decise di vendere l’azienda e dell’affare iniziò ad interessarsi un fondo di private equity con sede a Londra.

Una mezza dozzina di giovanotti e giovanotte con la pelle chiara e l’abito scuro si alternarono nei nostri uffici, trascorrendo ore e ore a parlare con Rubagotti e con Fortini, a fotocopiare documenti, sorridere, sgranocchiare patatine, scarabocchiare appunti sui moleskine e armeggiare con il Blackberry.

Fortini era presente a quasi tutte le riunioni, Rubagotti lo marcava stretto e gli faceva scaricare nella “data room” allestita al primo piano quintali di fogli di carta pieni di tabelle, indici, statistiche, contratti, tutto ciò che serviva a definire meglio il prezzo con cui la Betapac sarebbe passata di mano.

Fatale fu la macchinetta del caffè.

Una mattina, Fortini aveva appena finito di stampare le ultime previsioni del fatturato che Rubagotti gli aveva fatto correggere già quattro volte e, prima di affrontare nuovamente quel vecchio insopportabile volle prendersi una pausa.

Aveva appoggiato alla finestra una cartelletta nera, che conteneva la sua ultima fatica e aveva inserito nella macchina la manciata di monetine che serviva a scaricare nel bicchierino un caffè orribile, cui tuttavia nessuno sapeva rinunciare. La macchina si inceppò e cominciò ad emettere un suono spaventoso, come di mostro ferito.

Fortini la guardò da tutte le parti senza saper cosa fare, mentre dagli uffici vicini iniziò il traffico vociante di chi chiedeva cosa fosse successo.

Qualcuno ripeteva che ormai era ora di cambiare quella ferraglia, altri passarono alle vie di fatto e cominciarono a tirar calci e cazzotti che fecero tremare la lamiera, senza però ottenere il risultato sperato: il gigante era ancora vivo e più ululante che mai.

Il caso volle che proprio allora scendesse dall’ascensore un ragazzone rossiccio, mai visto prima, alto quasi due metri, le mani come badili e i vestiti appiccicati addosso per l’enorme stazza da ricoprire.

Appena si rese conto della situazione, si avvicinò con la sua faccia buona di figlio d’Irlanda, appoggiò la sua cartelletta nera alla finestra, abbracciò e sollevò il mostro come Ercole fece con il leone di Nemea, finché si udì uno schianto, seguito dal rumore delle monetine che finalmente avevano trovato la via giusta nei visceri della bestia; infine ci furono spruzzi di caffè misti allo scricchiolio della plastica del bicchierino triturato dai denti della belva umiliata e offesa.

Fortini guardò l’orologio e capì di essere in ritardo. Ringraziò tutti, salutò e si scusò con tutti, prese la cartelletta nera appoggiata alla finestra e si avviò verso l’ufficio di Rubagotti.

Percorse il lungo corridoio del secondo piano, ma questa volta non provò ad accennare alcuna movenza del suo ballo preferito, piuttosto volle aprire la cartelletta per riguardare al volo qualche numero. Ne estrasse un documento di parecchie pagine, che evidentemente non era il suo. Stava già per tornare sui suoi passi quando gli capitò di leggere il titolo; si fermò, prese fiato, si appoggiò ben saldo alla parete e lo sfogliò da cima a fondo più in fretta possibile, sentendosi colpevole.

Il documento era del gigante buono dai capelli rossi, con il quale aveva scambiato la cartelletta, e che non veniva da Belfast ma da Treviso ed era uno dei tanti consulenti, advisor, auditor e avvocati utilizzati nella cessione della società.

Rubagotti, che normalmente non poteva sopportare quella genia, nel momento in cui si apprestava ad uscire di scena con un bel pacco di milioni, aveva voluto seguire rigorosamente il rito prescritto dall’ortodossia finanziaria.

C’era una parola che ricorreva in tutte le pagine, più volte in ogni pagina di quel documento elaborato in Power Point, cioè il programma software che sta al consulente come il bisturi sta al chirurgo, la pistola al killer e la zappa al contadino. Questa parola era: “sinergia”.

La Betapac avrebbe dovuto essere incorporata in una società del Nord-Est, nostra concorrente e controllata dagli inglesi. Grazie a questa operazione si sarebbero realizzate interessanti e redditizie “sinergie”.

Adesso ho imparato anch’io il significato di questa parola, capace di far sognare gli imprenditori, guadagnare i consulenti e imbestialire i dipendenti.

Io ad esempio, insieme a tutte le mie colleghe della fatturazione, ero una sinergia, perché non aveva senso tenere due uffici identici, uno a Treviso e un altro a Milano.Via tutto, se ne fa uno solo bello grande, si mandano via le persone, si fa il “re-engineering dei processi”, eliminando gli sprechi e togliendo i servizi inutili, poi si rinnovano i sistemi informativi, si cambiano i contratti e si decide di cedere qualche attività in “outsourcing”.

Alla fine si fanno due conti e si scopre che tutta questa cosa è costata un sacco di soldi. Così si aumentano i prezzi e si diminuiscono ulteriormente i servizi ai clienti, tanto si è eliminato un concorrente, no? Se poi succede che i clienti non ci stanno e iniziano a fare acquisti in Cina, allora è proprio crisi di mercato e la ruota inizia un altro giro.

“Fortini, ma che fa lì impalato? Venga qui che la stiamo aspettando!”

Rubagotti era comparso all’imbocco del corridoio, visibilmente spazientito, e il suo tono non ammetteva repliche.

Fortini lo seguì nel suo ufficio senza pensare, con l’istintivo riflesso condizionato della pecorella distratta che ha appena ricevuto una randellata sul groppone.

Appena entrato si trovò al cospetto di uno spilungone abbronzato, elegante, dai denti troppo bianchi e la stretta di mano a tenaglia, che dava l’impressione di essere il capo di tutta quella tribù che si stava affaccendando attorno alla Betapac.

“Il signor Goldwater avrebbe piacere, prima di tornare a Londra, di dare un’occhiata a quei dati che le ho chiesto di preparare – gli stava dicendo Rubagotti parlandogli da sopra la spalla sinistra e sputacchiandogli nell’orecchio – ho chiamato anche Silvana per vedere i dati riepilogativi dell’ultimo trimestre”.

Silvana sono io e in effetti il ragionier Rubagotti mi aveva telefonato qualche minuto prima : “Sia brava, venga qui con i tabulati, perché quell’impiastro là non so mica cosa è riuscito a combinare e io qualche numero lo devo far vedere”.

Fu una questione di secondi, un sincronismo perfetto, che accese la follia di Fortini e ci salvò tutti quanti.

Il povero Tarcisio stava già boccheggiando, incapace di spiegare l’equivoco e si limitava ad indicare la cartelletta nera senza riuscire a mettere insieme due o tre sillabe di seguito che potessero formare una parola di senso compiuto.

D’un tratto da una borsa abbandonata in un angolo della stanza risuonò un cellulare. Lo spilungone abbronzato tese l’orecchio, cercò la borsa, dovette aprila, si mise a frugare prima in uno scomparto, poi in un altro, tirò fuori un fascicolo, raccolse l’agenda che si era infilata in mezzo ed era caduta per terra, la rimise a posto, ricominciò a cercare quel maledetto cellulare che non si trovava e continuava a suonare e a suonare sempre più forte.

Ma che diavolo di suoneria era? Che razza di musica era quella? A Fortini si illuminarono gli occhi…

Era un tango!

Lo spilungone abbronzato con il tango non c’entrava proprio nulla, era come i cavoli a merenda, la marmellata sulla pizza, il buon senso nei filosofi e l’onestà nei politici. Eppure quello era proprio un tango, malinconico, caldo e struggente, un vero “pensiero triste che si balla”, secondo la famosa citazione.

E Fortini, più disperato che triste, infine ballò.

Successe che mentre era ancora in corso la caccia al cellulare tra imbarazzi e imprecazioni soffocate, io bussai ed entrai nella stanza portando tra le braccia i tabulati fitti di numeri e di percentuali.

Fortini con due balzi mi fu addosso facendomi rovesciare tutti i fogli, mi cinse la vita e mi spinse la testa indietro, obbligandomi ad inarcare la schiena e a seguire i suoi passi indiavolati.

Qualche secondo ancora e irruppe gridando nell’ufficio il gigante dai capelli rossi. Aveva il volto paonazzo e la camicia tutta macchiata di caffè. Senza far caso a ciò che stava succedendo, individuò subito la cartelletta nera, aprì, controllò, emise un sospiro di sollievo e poi si fermò. Si guardò intorno ed ebbe la netta sensazione di essere entrato in quel vecchio film dei Monty Python che piaceva tanto a suo papà.

Rubagotti ormai cianotico si stava strappando i capelli. Lo spilungone biondo aveva spento il cellulare e stava sorridendo sardonico. Io e Fortini eravamo finiti gambe all’aria, dopo aver urtato una sedia e aver trascinato a terra con effetto domino la lampada a stelo e l’appendiabiti. L’ufficio si era riempito di una piccola folla di dipendenti preoccupati, curiosi e stupefatti.

Se ne andarono tutti; gli inglesi dico, sparirono con la stessa rapidità con cui erano venuti..

Mr. Goldwater si reputò un manager molto abile e fortunato: ci voleva proprio la sua presenza per sbrogliare i casi più complessi e a lui bastava un semplice colpo d’occhio per capire ciò che altri non coglievano nemmeno in ore e ore di duro lavoro. Gli italiani lo stavano prendendo in giro e quel Rubagotti era una caricatura di filibustiere. Che spudorato! Rubare i documenti e poi far organizzare quella messinscena da quel deficiente! Era un minchione, che si era messo fuori gioco da solo e adesso poteva andare a quel paese, lui e la sua ridicola azienda.

Fortini fu licenziato e rinacque a nuova vita. Aprì una scuola di ballo, si sposò, ebbe una bambina e la chiamò Viola.

Per qualche tempo ci invitò alle gare e alle serate a cui partecipava. Poi partì con la famiglia per il Sud America e non se n’è più saputo nulla.

Due anni fa Rubagotti è finalmente riuscito a vendere la sua azienda. A comprare è stato un nostro fornitore di Bergamo, un brav’uomo che quando parla si capisce ancora meno degli inglesi, ma fortunatamente non conosce il significato della parola “sinergia” e per ora sembra non avere alcuna intenzione di pagare qualche consulente che glielo spieghi.

Il nuovo direttore amministrativo è simpatico e competente, ma parla sempre di calcio e, lo vuoi sapere? A me Fortini manca da morire.

I corridoi sono un po’ meno bui adesso, eppure sembrano così vuoti.

La stanza che occupava Rubagotti è diventata una sala riunioni. Raramente mi ritrovo lì, ma ogni volta mi capita di distrarmi e di ripensare a quella mattina di maggio, quando Tarcisio mi prese le mani e per un attimo mi fece volare. Chissà dov’è adesso…








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