mercoledì 30 ottobre 2013

John Steinbeck - The Grapes of Wrath (Furore) - prima traduzione italiana non censurata

Letto sul Sole24Ore di domenica 27 Ottobre un articolo di Mario Andreose, direttore editoriale della Bompiani, in cui si annuncia l'uscita il prossimo 6 novembre di una nuova traduzione italiana di "The Grapes of Wrath".
L'opera di Steinbeck non era infatti più stata tradotta in Italia dal 1940, quando "la censura del ministero di Cultura Popolare si accanisce su un libro oggettivamente sovversivo...i lettori italiani si devono accontentare di una versione tagliata e rimaneggiata, a cui nemmeno gli aggiustamenti successivi hanno reso piena giustizia".
Il romanzo parla dell'America ai tempi della Grande Depressione, della fuga dalle campagne per rincorrere il miraggio del lavoro in città, della migrazione delle popolazioni del Mid-West verso la California.
"Erano i nuovi poveri, bianchi e prtestanti, espropriati dalle banche delle loro fattorie di mezzadri, perchè non più redditizie dopo che le tempeste di polvere (Dust Bowl) avevano disperso l'humus coltivabile. In Californina non possono che offrire le loro braccia per racogliere frutta, ovunque se ne presenti la possibilità, nomadi loro malgrado, accampati qua e là con le loro carrette scassate con cui avevano attraversato la Route 66...."
Il romanzo, pubblicato negli Stati Uniti nel 1939, ispirò l'omonimo film di John Ford con Henry Fonda nella parte di Tom Joad, personaggio su  cui Woody Guthrie costruisce la sua Ballata di Tom Joad, così come in anni più recenti Bruce Springsteen (The Ghost of Tom Joad).
I lettori di Le Monde hanno collocato The Grapes of Wrath al settimo posto tra i 100 libri più importanti del secolo scorso.

martedì 29 ottobre 2013

Adriano Olivetti


Vista ieri sera su Rai 1 la prima puntata di: "Adriano Olivetti, la forza di un sogno", interpretato da Luca Zingaretti (stasera la seconda e ultima parte).
E' sempre bello sentire parlare di questo grande uomo, capace di avere grandi idee e di realizzarle.
Ho abitato a Ivrea per molti anni, quando i tempi erano già cambiati. Però i ricordi erano ancora vivi e in quanto ad oggi...Dio solo sa quanto ci sarebbe bisogno di quelle idee e di quella forza visionaria.

Natalia Ginzburg, Lessico Famigliare




 Sono molti i libri, i romanzi che propongono al lettore saghe e storie di famiglia.
Nonne che raccontano, nipoti che ricordano, soffitte piene di tesori, cassetti dai quali emergono lettere e diari in grado di far fantasticare sulle vicende più o meno avventurose di antenati dimenticati o sconosciuti.

“Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg, un classico della letteratura italiana, è qualcosa di diverso. Si viene subito conquistati dalla leggerezza del racconto, contrapposta alla drammaticità  della Storia che fa da sfondo (il fascismo, le leggi razziali, la guerra, i primi anni del dopoguerra). L’autrice non abbandona mai  la sua vena ironica, sia che si tratti di regalarci deliziosi quadretti di vita domestica, sia che osservi con la stessa familiarità e disinvoltura i numerosi personaggi celebri che accompagnano per lunghi tratti le vicende del racconto.
Ultima dei cinque figli di Giuseppe Levi, scienziato e professore universitario triestino, l’ambiente  di Natalia Ginzburg è quello della borghesia colta e antifascista della Torino tra gli anni Trenta e Cinquanta.
Filippo Turati, Anna Kuliscioff, Giancarlo Pajetta, Leone Ginzburg, Camillo e Adriano Olivetti, Cesare Pavese, Vittorio Foa si mescolano alle vicende di casa Levi, anzi ne fanno parte e vengono descritti  attraverso gli occhi di chi, per età e carattere, si tiene ai margini, osserva e annota. E così, fuori dall’ufficialità dei libri di storia e delle cronache politiche, ma anche con grande garbo e discrezione, ci vengono offerti tratti umani e aneddoti difficilmente dimenticabili.
Solo le vicende della scrittirce, che sposò Leone Ginzburg e fu una “colonna” della casa editrice Einaudi fin quasi dalla sua fondazione, sono sfumate e ridotte all’indispensabile. L’io narrante non è quasi mai protagonista della storia raccontata, che è soprattutto storia di coloro che popolarono gli anni decisivi della sua esistenza.

Più che la storia, importano i bozzetti; interessa il carattere dei personaggi più ancora delle loro vicende. Frammenti di vita familiare. E su tutti svetta la figura paterna, personaggio che detta i tempi della narrazione ed è sempre al centro dei passaggi più divertenti.

Il “lessico” è il filo conduttore. Fin dalla prima pagina, fin dall’incipit:
"Nella mia casa paterna, quand’ero ragazzina, a tavola, se io o i miei fratelli rovesciavamo il bicchiere sulla tovaglia, o lasciavamo cadere un coltello, la voce di mio padre tuonava: - Non fate malagrazie!"
E subito dopo ci si imbatte negli sbrodeghezzi, nei potacci, nelle negrigure, e via discorrendo.
Erano queste alcune delle parole che rendevano così caratteristico il modo di esprimersi del padre di Natalia, una sorta di burbero buono con la passione della montagna e del socialismo – "le cose che mio padre apprezzava e stimava erano: il socialismo, l’Inghilterra, i romanzi di Zola, la fondazione Rockfeller, la montagna e le guide della Val d’Aosta" - rappresentato con un misto di soggezione e affetto dall’autrice (a distanza di tempo più affetto che soggezione). Parole, lessico che costituirono un inconfondibile segno di riconoscimento per tutta la famiglia, insieme agli aneddoti raccontati mille volte attorno al tavolo.
"Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute mille volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire:<<Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna>> o <<De cosa spussa l’acido solforico>>, per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole."


Quel lessico, quelle frasi, quelle storie, risuonano in casa Levi mentre ad uno ad uno i suoi figli prendono strade diverse.

Gino, il primogenito e prediletto dal padre perchè studioso e appassionato di montagna:
"Gino dava poco spago perché leggeva sempre; e quando gli si parlava, rispondeva a monosillabi, senza alzar la testa dal libro. Se Alberto e Mario si picchiavano, non si muoveva e continuava a leggere; e mia madre doveva chiamarlo e scuoterlo, che venisse a dividerli. Leggendo, mangiava pane, adagio adagio, una pagnotta dopo l’altra; ne mangiava più o meno un chilo, dopo il pranzo.
…A volte, la sera mio padre portava Gino dai Lopez; sembrandogli il più serio, il più educato, il più presentabile dei suoi figli. Ma Gino aveva il vizio di addormentarsi dopo mangiato: e si addormentava anche là dai Lopez, in una poltrona, con la Frances che gli parlava: i suoi occhi si facevano piccoli, la sua testa dondolava dolcemente; e dopo un poco dormiva, con un sorriso svanito e beato, con le mani in grembo. – Gino! Urlava mio padre,- non dormire! Stai dormendo!
- Voialtri, diceva mio padre, non siete gente da portare nei loghi."
Gino fu il primo a sposarsi e a lasciare la casa paterna per andare a lavorare alla Olivetti.
"Gino dunque lasciò la nostra casa, e se ne andò ad abitare a Ivrea; e pochi mesi dopo annunciò a mio padre di aver conosciuto là una ragazza e di essersi fidanzato. Mio padre fu colto da una collera spaventosa. Mio padre sempre, ogni volta che uno di noi gli annunciò di essere sul punto di sposarsi, fu colto da una spaventosa collera, chiunque fosse la persona prescelta. Un pretesto lo trovava sempre. O diceva che la persona da noi prescelta era di salute gracile; o diceva che non aveva soldi; o diceva che ne aveva troppi. Ogni volta mio padre ci proibì di sposarci; senza ottenere nulla, perché tutti ci sposammo ugualmente."

All’opposto,  Mario e Paola erano i più distanti dagli ideali del padre, in quanto “detestavano la montagna, e amavano le stanze chiuse e tiepide, la penombra, i caffè. Amavano i quadri di Casorati, il teatro di Pirandello, le poesie di Verlaine, le edizioni Gallimard, Proust. Erano due mondi incomunicabili.”
Dovevano aver tratto le loro inclinazioni dalla madre Lidia una milanese di origine triestina che prediligeva “ il socialismo, le poesie di Paul Verlaine, la musica e, in particolare, il Lohengrin, che usava cantare per noi la sera dopo cena.” Anche  lei  amava le comodità e non impazziva di gioia quando c’era da andare in montagna  “Vacca d’una casa! Malignazzo di un Saint Jacques-d’Ajas!”, ma era una “persona lieta”, dotata di ironia e quindi capace di comunicare e intendersi meglio con l’aspro mondo paterno.
Al contrario, "mostravano, la Paola e Mario, perduti nella loro malinconia, una profonda insofferenza per il dispotismo di mio padre, e per i costumi di casa nostra, quanto mai semplici e austeri: avevano l’aria di sentirsi, nella nostra casa, in esilio, sognando tutta un’altra casa, e tutt’altre abitudini."
In esilio Mario ci andrà veramente: a Parigi, dove si rifugiò in seguito ad una avventurosa fuga dopo essere stato arrestato per la pubblicazione di opuscoli antifascisti. E a Parigi finirà per rimanere anche a guerra finita.
Paola invece passerà attraverso il matrimonio e il divorzio con Adriano Olivetti.
"La Paola avrebbe voluto tagliarsi i capelli, portare i tacchi alti e non le scarpe mascoline e robuste che faceva <<il signor Castagneri>>; andare a ballare in casa delle sue amiche, e giocare al tennis. Nulla di questo le era consentito. Le era quasi imposto di andare, il sabato e la domenica, in montagna con Gino e con mio padre. La Paola trovava Gino noioso, Rasetti noioso, gli amici di Gino in generale tutti noiosissimi, e la montagna insopportabile. Skiava tuttavia molto bene, senza stile, dicevano, ma con grande resistenza alla fatica e con grande coraggio, e si buttava giù per le discese con l’impeto di una leonessa. A giudicare dall’impeto e dal furore con cui si buttava giù per le discese, io sono indotta a credere che si divertisse a skiare, e ne traesse il più vivo piacere: ma ostentava per la montagna un profondo disprezzo; diceva di avere in odio le scarpe chiodate, i calzettoni di lana e le minute lentiggini che apparivano al sole sul suo piccolo naso delicato; e per fare sparire quelle minute lentiggini, usava, dopo ch’era stata in montagna, incipriarsi il viso d’una cipria bianca. Avrebbe voluto avere poca salute, un aspetto fragile, e il viso d’un pallore lunare, come hanno le donne nei quadri di Casorati; e si seccava quando le dicevano che era <<fresca come una rosa>>. Vedendola bianca in viso, mio padre che non sospettava che mettesse la cipria, diceva che era anemica e le faceva prendere il ferro."

Infine Alberto, il più discolo, con un carattere solare e gaudente:
"Mio padre era preoccupato per l’avvenire di tutti i suoi figli maschi, e svegliandosi la notte diceva a mia madre: - Cosa farà Gino? Cosa farà Mario? – Ma nei riguardi di Alberto, che andava ancora al ginnasio, mio padre non era preoccupato, era addirittura in preda al panico. – Quel mascalzone di Alberto! Quel farabutto di Alberto! – Non diceva neppure “quell’asino di Alberto” perché Alberto era più che un asino, le sue colpe sembravano a mio padre inaudite, mostruose. Alberto passava le giornate o sui campi di foot-ball, da cui tornava sudicio, a volte con le ginocchia o la testa insanguinate e bendate; o in giro con i suoi amici; e rientrava sempre tardi a pranzo. Mio padre si sedeva a tavola, e cominciava a sbattere il bicchiere, la forchetta, il pane; e non si sapeva se ce l’aveva con Mussolini, o con Alberto che non era ancora rientrato.
…Alberto andava dietro alle sartine; andava dietro, però, anche alle ragazze di buona famiglia. Andava dietro a tutte le ragazze, gli piacevano tutte; e siccome era allegro e gentile, corteggiava, per allegria e gentilezza, anche quelle che non gli piacevano. Si iscrisse in medicina; e mio padre se lo trovava davanti, nell’aula di anatomia; e non gli piaceva niente trovarselo lì. Una volta, era buio nell’aula, e mio padre faceva delle proiezioni; e vide, nel buio, una sigaretta accesa. – Chi fuma? – urlò. – Chi è quel figlio d’un cane che s’è messo a fumare? – Sono io papà, rispose la nota voce leggera; e tutti risero.
Quando Alberto doveva dare un esame, mio padre era, fin dal mattino di pessimo umore. – Mi farà fare una brutta figura! Non ha studiato niente! – diceva a mia madre – Aspetta Beppino!-  lei rispondeva, - aspetta! Non lo sappiamo ancora.
-Ha preso trenta, - gli diceva mia madre. –Trenta? – lui s’infuriava. – Trenta! Gliel’hanno dato perché è mio figlio! Se non era mio figlio lo bocciavano
E si faceva più nero che mai.
Alberto diventò, più tardi, un medico molto bravo. Ma mio padre non se ne convinse mai. E quando mia madre o qualcuno di noi non stava bene, e esprimeva il desiderio di farsi visitare da Alberto, mio padre rompeva in quelle sue tuonati risate:
-Macchè Alberto! Cosa volete che sappia Alberto!"

 Quando anche  Natalia lascia definitivamente la casa paterna e Torino, in quella casa rimangono suo padre e sua madre, soli.  Ma anche allora continuano a risuonare le antiche parole:
"Tutte domeniche, - disse mia madre,- andavo dal Barbison. Le sorelle del Barbison le chiamavano le Beate, perché erano molto bigotte…..
Ah non cominciamo adesso col Barbison! Disse mio padre. –Quante volte l’ho sentita contare questa storia!"

mercoledì 23 ottobre 2013

Sedriano, il sindaco e l'insipienza

Da circa sette anni vivo a Sedriano, un comune a pochi chilometri da Milano. La scorsa settimana Sedriano ha conquistato un "primato" poco invidiabile: è il primo caso in Lombardia di consiglio comunale sciolto per infltrazione mafiosa: 
 http://www.corriere.it/cronache/13_ottobre_16/ndrangheta-sciolti-consigli-comunali-sedriano-milano-ciro-crotone-f25d4a42-35ef-11e3-9c0c-20e16e3a15ed.shtml


 Il sindaco continua a proclamarsi innocente, anzi, secondo una moda che purtroppo non passa mai, un "perseguitato politico":

Chi leggesse queste notizie senza conoscere Sedriano potrebbe immaginarsi un paese simile a quelli raccontati da Saviano in Gomorra.
Ma si sa che esistono tanti tipi di realtà, o di verità. C'è una realtà mediatica, fatta inevitabilmente di semplificazioni, forzature e reticenze. C'è una realtà processuale, che a passo di lumaca si fa strada lungo il tortuoso percorso delle procedure, tra mille insidie ed imboscate e quando arriva al traguardo non trova più nessuno ad accoglierla. E poi c'è l'esperienza quotidiana di chi vive dentro quegli avvenimenti che i giornali e i tribunali provano a raccontare.
Non si tratta propriamente di piccole differenze, di sfumature.
Per quel che vale il mio punto di vista, posso solo dire che a Sedriano i boss mafiosi non ci aspettiamo di incontrarli al bar, semmai di vederli al cinema o in tv.
Ma, visto che ho tirato in ballo Gomorra, c'è un altro aspetto che riguarda questa vicenda. Si tratta della capacità delle organizzazioni criminali di insinuarsi senza apparire, di blandire il potere, assecondarlo per poi usarlo, aprire attività commerciali lecite per foraggiare, riciclare e coprire quelle illecite.
Dagli amministratori pubblici (ma anche dagli amministratori e dai dirigenti dove investiamo i nostri soldi, dalle banche, dai giornali, etc.) ci aspettterebbe quindi non solo "onestà", ma anche un comportamento avveduto che sappia tenere ben lontani questi tentativi di commistione tra ciò che è sporco e ciò che è pulito.
Non mi basta sapere che il mio sindaco non è mafioso, anche perchè, pur sapendo che ormai non bisogna stupirsi di nulla, farei fatica a credere il contrario. Vorrei che avesse anche l'accortezza e il buon senso di tenersi alla larga da certi figuri, vorrei che non stipulasse patti col diavolo per ambizione politica, vorrei che non fosse distratto e che tenesse gli occhi ben aperti, perchè non lo abbiamo eletto a quella carica per fare Cappuccetto Rosso o Alice nel Paese delle Meraviglie e  vorrei che capisse che si può sbagliare per dolo ma anche per colpa.


Fabrizio De Andrè - Don Raffaè

Passo dopo passo



“Per fortuna la capacità di concentrazione e la perseveranza, al contrario del talento, con l’allenamento si possono acquisire e coltivare, anche potenziare. Si svilupperanno naturalmente, esercitandosi ogni giorno a stare seduti alla scrivania e a focalizzare la propria attenzione su un punto. Come ho già detto, questo processo è simile all’allenamento muscolare. Bisogna inviare di continuo al nostro organismo, e farglielo assimilare bene, il messaggio che ci è necessario scrivere senza interruzioni, lavorare concentrandoci dopo giorno. Poi gradualmente spostare il limite più in là. Aumentare a poco a poco, in modo quasi impercettibile, la quantità.

E’ sempre lo stesso processo, che si tratti di scrivere o di irrobustire i muscoli e trasformare il nostro corpo correndo quotidianamente. Stimolarsi, e perseverare. E’ ovvio che occorre molta pazienza. Ma si tratta solo e semplicemente di questo. Quello straordinario autore di gialli che fu Raymond Chandler confidava in una lettera:  ‹‹Anche se non scrivo niente, ogni giorno mi siedo comunque diverse ore alla scrivania e mi concentro ›› e io capisco benissimo con quale intenzione lo facesse. In quel modo Chandler allenava metodicamente i muscoli necessari alla propria professione, e rafforzava la propria volontà. Un allenamento quotidiano che gli era indispensabile”


Murakami Haruki, L’arte di correre.

Leggere per vivere

 Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere.
              Gustave Flaubert, Lettera a Mlle de Chantepie, giugno 1857

lunedì 21 ottobre 2013

Perdere bene, vincere male

In questo week-end ci sono state le partite di apertura campionato di pallavolo delle squadre di entrambe le mie figlie.
Una ha giocato contro una squadra più debole, ha vinto, ma ha giocato male, facendosi rimontare un sacco di punti, perdendo un set praticamente senza giocare e vincendo tutti gli altri a stento. 
L'altra si è misurata con una squadra più forte, ha lottato, ha conteso la vittoria punto su punto, ma alla fine ha perso.
A 11 e 14 anni lo sport è ancora solo lo sport, è ancora presto per usarlo come metafora della vita.
Chissà se tra qualche anno anche queste giornate contribuiranno a radicare in loro l'idea che si può perdere bene e vincere male. In un mondo ipercompetitivo almeno in superficie, dove sembrano contare esclusivamente punteggi, graduatorie e parametri vari, non sarebbe male imparare presto ad affidare la propria sicurezza di sè a qualcosa di più profondo che un tabellone elettronico.

giovedì 17 ottobre 2013

Il fascino del racconto

Nei giorni scorsi è stato assegnato il premio Nobel per la letteratura ad Alice Munro, canadese, classe 1931, scrittrice esclusivamente di racconti.

E' finalmente una bella soddisfazione per un genere un po' trascurato dal mondo editoriale e dalle preferenze dei lettori, che però ha tradizioni antiche e ha offerto capolavori assoluti  (basti pensare alle novelle del Decameron, alle Canterbury Tales). 

Ernest Hemingway
Nel racconto si sono cimentati, con splendidi risultati, autori come Checov, Hawthorne, Gogol, Pirandello, Verga, Hemingway, Scerbanenco, Buzzati, Calvino, tanto per citarne alcuni.
In omaggio al premio Nobel 2013 per la letteratura, ecco due illustri testimonianze "pro-racconto":
 
Raymond Carver (da Per favore, non facciamo gli eroi):
 "Ho scritto e pubblicato il mio primo racconto nel 1963 e da allora non ho mai smesso di essere attratto dalla narrativa breve. Penso che in parte (ma solo in parte) questa inclinazione verso la brevità e l'intensità abbia a che fare con il fatto che sono un poeta oltre che uno scrittore di racconti...Ma questo duplice legame con la poesia e il racconto non spiega tutto. Sono innamorato dei racconti e non potrei fare a meno di scriverli, neanche se lo volessi. E non voglio.
Adoro il guizzo rapido di un buon racconto, l'eccitazione che spesso scaturisce dalla frase d'apertura, il senso di bellezza e di mistero che i migliori sanno evocare; e il fatto - così decisivo per me all'inizio e valido tuttora - che un racconto può essere scritto e letto in una sola seduta (come accade per una poesia!).
All'inizio - ma credo ancora adesso - ritenevo che i più importanti scrittori di racconti fossero Isaac Babel, Anton Checov, Frank O'Connor e V.S. Princhett. Ho dimenticato chi mi prestò una copia dei Racconti di Babel, ma ricordo di essere stato folgorato da una frase in una delle sue storie più belle, di averla copiata nel libriccino di appunti che allora portavo sempre con me. Il narratore, parlando di Maupassant e dell'arte di scrivere, dice: "Nessuna lama può colpire al cuore con altrettanta forza di una frase messa al posto giusto".
Quando la lessi la prima volta mi colpì con tutta la forza di una rivelazione.Ecco qual è lo scopo che voglio raggiungere con i miei racconti: trovare le parole giuste, le immagini precise, usare la giusta e corretta punteggiatura in modo che il lettore sia catturato e coinvolto nella storia e distolga gli occhi dalla pagina solo se la sua casa prende fuoco. Vano desiderio, forse, chiedere alle parole di assumere la forza delle azioni, ma chiaramente erano il desiderio di un giovane scrittore. Eppure, l'idea di scrivere con chiarezza e sufficiente autorità per interessare e tenere avvinto il lettore mi accompagna tuttora. Anzi, rimane uno dei miei obiettivi principali ancora oggi.
V.S Pritchett ha definito il racconto come qualcosa che viene colto con la coda dell'occhio, di sfuggita. Prima c'è l'occhiata. Poi l'occhiata prende vita, si trasforma in qualcosa che illuminerà l'attimo e forse lo salderà indelebilmente alla coscienza del lettore. Anzi, la farà diventare parte dell'esperienza stessa del lettore per usare le parole di Hemingway. Lo scrittore ci spera, sempre. Sempre. Se siamo fortunati, autore e lettore insieme, finiremo l'ultima riga di un racconto e poi rimarremo seduti per un minuto, con calma; forse il cuore o la mente avranno avuto un sussulto. La temperatura corporea sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, mentre il respiro tornerà calmo e regolare, ci ricomporremo e, sempre insieme, ci alzeremo "creati di sangue caldo e di nervi" come dice un personaggio di Checov, e ci occuperemo di qualcos'altro: la vita continua: come sempre".



Edgar Allan Poe (dal commento ai Racconti narrati due volte di Nathaniel Hawthorne):
 "Se mi si ingiungesse di designare quel tipo di composizione che... offrisse il campo d'azione più vantaggioso, parlerei senza esitazione del racconto in prosa... Alludo alla sorta di narrazione in prosa che richiede da una mezz'ora a un'ora o due di lettura. Al romanzo ordinario si può obiettare per via della sua lunghezza... Dato che non si può leggerlo in una sola volta, esso naturalmente si priva dell'immensa forza dell'interezza. Le occupazioni quotidiane che intervengono durante le pause della lettura modificano, annullano o minano in maggior o minor grado le impressioni del libro. Solo la semplice cessazione della lettura sarebbe di per sè sufficiente per distruggere la vera unità. Nel racconto breve, tuttavia, l'autore è posto in grado di svolgere la pienezza della sua intenzione, quale essa sia. Durante l'ora di lettura l'animo di chi legge è sotto il controllo dello scrittore. Non vi sono influssi esterni o interni derivanti da stanchezza o interruzione.
 Un abile artista letterario ha costruito un racconto. Se è saggio, i suoi pensieri non li avrà foggiati perchè si acconciassero alle sue vicende; ma, essendosi proposto risolutamente di ricavare un certo raro, ovvero singolare effetto, inventa quindi quelle vicende, indi combina queste vicende come meglio gli giova per costruire il suo effetto preconcepito. Se proprio la sua prima frase non tende a far emergere quest'effetto, allora ha fallito il suo primo passo. Nell'intera composizione non dovrebbe esservi alcuna parola che non tenda direttamente o indirettamente verso lo specifico disegno prestabilito. E con tali mezzi, con tale cura e abilità, viene infine dipinto un quadro che nella mente di chi lo contempla con un'arte affine lascia un senso di massima soddisfazione. L' idea del racconto è stata presentata intatta in quanto non disturbata; e questo è un traguardo irraggiungibile dal romanzo. All'indebita brevità si possono muovere obiezioni, sia qui come in poesia; ma la lunghezza indebita è da evitarsi ancor più."


mercoledì 16 ottobre 2013

Walt Whitman - Canto della Strada


A piedi e con cuore leggero m’avvio per libera strada, 
In piena salute e fiducia, il mondo offertomi innanzi, 
Il lungo sentiero marrone pronto a condurmi ove voglia. 

D’ora in avanti non chiedo più buona fortuna, sono io la 
       buona fortuna, 
D’ora in avanti non voglio più gemere, non più rimandare, 
      non ho più bisogno di nulla, 
Finiti i lamenti al chiuso, le biblioteche, le querule critiche,
Forte e contento m’avvio per libera strada. 

La terra, e tanto mi basta, 
Le stelle non scendano più accosto, 
So che stanno assai bene dove sono, 
So che bastano a quelli che appartengono ad esse.

 Song of the Open Road

AFOOT and light-hearted, I take to the open road,
Healthy, free, the world before me,
The long brown path before me, leading wherever I choose.
  
Henceforth I ask not good-fortune—I myself am good fortune;
Henceforth I whimper no more, postpone no more, need nothing,
Strong and content, I travel the open road.
  
The earth—that is sufficient;
I do not want the constellations any nearer;
I know they are very well where they are;
I know they suffice for those who belong to them.

Capitan Miki e Il Grande Blek


Questo è un post di immagini, non di parole, che sono sempre un po' stonate e patetiche negli amarcord.
Se siete tra coloro che non hanno trascorso lunghe ore in compagnia di Capitan Miki, del Dottor Salasso o di Doppio Rhum; se non avete mai conosciuto il Grande Blek, il giovane Roddy o il professor Occultis, è del tutto inutile che ve li presenti adesso.
Chi invece sa e ricorda, può apprezzare in silenzio; e di questo silenzio mi sarà grato.




lunedì 14 ottobre 2013

Il compleanno di Italo Calvino

Leggo che domani 15 ottobre sarebbe il novantesimo compleanno di Italo Calvino, se non fosse morto quasi trent'anni fa.
E' l'occasione per ricordare uno scrittore a cui sono molto affezionato. Non solo perchè è da sempre tra i miei preferiti. 
Il fatto è che Calvino mi è sempre piaciuto come personaggio, come intellettuale che sapeva essere un punto di riferimento (vorrei quasi dire un maestro di vita, ma lui non avrebbe gradito un'espressione così retorica) senza mai prendersi troppo sul serio.
Ho l'età per ricordare anche alcuni suoi interventi sui giornali, alcune sue interviste. Una frase che ricordo sempre di lui riguarda la concezione del lavoro quotidiano. A quei tempi ero un giovane che, come tutti, avrebbe voluto che il lavoro fosse innanzi tutto "creativo". Ma lui disse una cosa che non mi sono più dimenticato. Disse: guardate che la creatività nel lavoro è un falso mito. Difficilmente potete essere creativi senza una lunga disciplina, un faticoso allenamento, senza la pazienza di curare i particolari. Non crediate che la creatività sia solo "ali di farfalle". La creatività è soprattutto una dura e robusta tavolozza di legno, che ti fa venire i calli a maneggiarla. Poi ci puoi anche incollare sopra le ali di farfalla. Ma senza la tavolozza di legno, le ali di farfalla sarebbero soltanto un impiastro inconsistente.
E infatti, Calvino aveva una concezione monacale del suo lavoro, della scrittura. Era un perfezionista, cercava di migliorarsi sempre e guardava avanti.
Ho l'impressione che oggi Calvino sia poco letto. E' un peccato perchè Calvino era un uomo che era molto interessato al futuro, che aveva in simpatia i giovani e che, tenendo ben saldi alcuni principi,  sapeva però mettere in discussione tante cose. D'altra parte, il suo romanzo più famoso, Il Barone Rampante, inizia proprio con una ribellione e cioè con il rifiuto del piccolo Cosimo, Barone di Rondò, che non vuole mangiare ciò che ha nel piatto (si tratta di lumache, come dargli torto...) e perciò si arrampica su un albero senza mai più scendere a terra.
Sul Sole 24 Ore di ieri (domenica 13 ottobre) c'è un bell'articolo di Marco Belpoliti, che si conclude con tre consigli che Calvino dava alla generazione che si apprestava ad entrare nel nuovo millennio e cioè: "imparare molte poesia a memoria, anche da vecchi; preferire le cose che richiedono sforzo, diffidare della facilità; sapere che tutto quello che abbiamo può esserci tolto da un momento all'altro". 
Che dire: riguardo al primo consiglio, oggi viviamo con ogni sorta di aggeggio elettronico che è fatto apposta per evitare di sforzare la nostra memoria (e se per caso la usiamo, difficilmente è per imparare poesie, più facile per cercare di ricordare chi segnò il goal decisivo nella finale di Champions League di tre anni fa). Scegliere la strada difficile invece di quella facile? Provateci in qualsiasi ambito lavorativo e vi guadagnerete istantaneamente la patente del perdente o dello "sfigato" (gli unici a cui si possono ancora proporre queste prediche sono i figli, ma si sta velocemente abbassando l'età in cui smettono di bersele). 
Ecco, invece sul fatto che da un giorno all'altro possiamo perdere tutto, questo sì, questo l'abbiamo visto e anche più di una volta... 
Caro Calvino, anche se non abbiamo seguito i tuoi consigli, sei un grande e rimarrai sempre nei nostri cuori!