martedì 29 aprile 2014

Fate

"Ogni volta che un bambino smette di credere alle fate, una fata muore".

dal film Neverland-Un sogno per la vita, 2004  

con con Johnny Depp, Kate Winslet e Dustin Hoffman

lunedì 28 aprile 2014

La solitudine dei numeri primi



Su La Sepoltura della Letteratura, uno dei blog che seguo, ieri c’è stata un’interessante discussione su questo romanzo, con oltre 40 interventi, tra cui il mio. Tutto è partito da una pesante stroncatura del gestore del Blog, con conseguenti commenti a favore e contro.

Per quel che mi riguarda, considero “La solitudine dei numeri primi” un buon romanzo d’esordio, con un’efficace idea di base e ottime capacità di catturare l’attenzione del lettore (senza però riuscire a condurlo a un approdo convincente). Certo, non mi sfugge l’abile operazione di marketing editoriale che sicuramente c’è stata dietro a questo lancio. Ma non mi disturba più di tanto. Anche perché in questi casi io sono solito evitare l’acquisto del libro e preferisco prenderlo in prestito in biblioteca. Per l’acquisto ci può essere tempo dopo, se sono davvero convinto. E’ la stessa cosa che ho fatto con un altro romanzo uscito più o meno nello stesso periodo di quello di Giordano: L’eleganza del riccio. Anche la Barbery sviluppa un tema interessante, con buona tecnica, ma con una pedanteria e leziosità che mi ha un po’ infastidito e che alla fine mi ha portato a respingere il suo romanzo, per il quale, al contrario che per La solitudine, darei un giudizio tutto sommato negativo.

In definitiva, a me pare che libri come questi, anche quando tecnicamente validi,  manchino di autentica passione. Sembrano esercizi di stile, più o meno riusciti, ma non riescono ad andare in profondità proprio perché si percepisce che anche l’autore li ha costruiti in modo freddo, senz’anima. Forse mi avete già capito, ma c’è una parola chiave, tra i commenti che sono stati inseriti ieri, che mi ha fatto sobbalzare. Ad un certo punto una lettrice chiede al gestore del Blog: scusa, ma perché parli ancora di un libro così “datato”? Questa parola mi ha evocato un’altra esperienza personale. Su Qlibri qualche settimana fa ho recensito il romanzo di Paola Mastrocola “Non so niente di te” e uno dei commenti ricevuti è stato più o meno questo: sono venuti fuori buoni spunti, considerando che si tratta di una lettura un po’ “datata” (NB: non erano ancora trascorsi 12 mesi dall’uscita di questo romanzo!)

Ecco, girando attorno al termine “datato” forse riesco a spiegarmi meglio. I libri che sono portato a promuovere senza tentennamenti sono quelli che riescono a resistere un po’ di più del tempo in cui cambia la moda del taglio di capelli o si abbassa o si alza il girovita dei calzoni. Sono quei libri in cui l’autore, parlando di qualsiasi cosa, passata, presente, o futura, riesce a mettere tutto se stesso e, poiché il cuore umano da millenni è attraversato dalle stesse passioni, così facendo non può che collocarsi nel flusso dei grandi temi narrativi che da Omero in poi ci affascinano e ci appassionano.

Forse, oltre a quello delle biblioteche, possiamo ricavarne un altro suggerimento: aspettiamo che la moda passi. Quando ci sarà silenzio, si saranno spente le luci e le voci dei lettori che non vogliono perdere tempo su oggetti “datati” si saranno disperse nell’aria, allora sarà il momento di prendere in mano quel libro su cui eravamo dubbiosi, sfogliarlo e iniziarlo a leggere. E se nel perfetto silenzio ci comunicherà davvero qualcosa, andiamo avanti con fiducia.

La vera solitudine

La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l'estraneo siete voi.

Luigi Pirandello, Uno, nessuno, centomila

sabato 26 aprile 2014

Impossibile è non provarci



Non è facile commentare un saggio scritto da un autore che si stima, per il quale si nutre rispetto e ammirazione, ma del cui contenuto non si condivide quasi nulla.

L’educazione (im)possibile di Vittorino Andreoli è un libro che mi ha messo molto a disagio, che ho letto con grande curiosità, sperando pagina dopo pagina di trovare la svolta che attendevo, e faticando sempre di più ad arrivare alla fine nonostante la qualità delle riflessioni dell’autore e il grande interesse dei temi trattati.

Perché ho fatto così fatica? Perché ho provato disagio?

Per due terzi il libro è un lungo elenco di riflessioni amare, di critiche al passato e al presente, strali acuminati che non lasciano speranze, come quei pensieri che tutti, genitori e non, a partire da una certa età lasciamo che ci attraversino la mente e il cuore (forse rappresentano la coperta di Linus di ex ragazzi che hanno ormai trascorso troppi anni nella fortezza Bastiani, mentre il mondo nel frattempo è andato avanti). L’ultima parte invece ripone le speranze di successo di ogni serio tentativo di educazione in un’utopica società nuova, nella quale possa fiorire un nuovo umanesimo, non più ciecamente fiducioso nelle qualità dell’uomo, ma vaccinato dalla crisi del Novecento e reso forte dalla consapevolezza dell’umanità fragilità.

Per chi è padre, o madre, è un discorso sconfortante. A costo di banalizzarlo (ma dobbiamo banalizzare un po’ le cose per riportarle sulla terra) significa questo: cari genitori, voi siete stati educati in un modo tremendo, con un sistema di regole buono soprattutto per generare una moltitudine di tranquilli e  innocui cittadini sottomessi al potere. Oggi state assistendo impotenti allo sgretolarsi delle istituzioni (a cominciare dalla famiglia e dalla scuola) che vi davano un’illusoria sensazione di sicurezza. Soprattutto, le (giuste) critiche all’autoritarismo del passato hanno provocato una vittima certa: il padre, che non ha più un suo ruolo in famiglia ed è diventato inutile, tanto da poter definire la nostra società come una società senza padri. Ma poiché ogni vuoto è destinato ad essere riempito, sempre più forte sta emergendo il nuovo indiscusso capofamiglia, ovvero il dio denaro che è impiegato prevalentemente in spese inutili, caratterizzando la nostra società (oltre che per l’assenza del padre) anche come società dell’inutile.

Abbiamo qualche speranza? No, così come stanno le cose non ce l’abbiamo: manca nei giovani (e non solo) qualsiasi percezione del futuro, senza la quale non ha senso parlare di educazione. In qualsiasi ambito (famiglia, scuola, relazioni, sesso, consumi, politica) si vive per soddisfare i bisogni primari del momento, senza fare progetti, senza capacità di attesa, senza fantasia, senza sogni.

E dunque? Dunque non resta che sperare in un altro mondo, magari in un’altra vita…

Scherzi a parte, il problema è proprio qui: Andreoli vede nella crisi attuale un’occasione di rifondazione della società che permetta di uscire dalle logiche economiciste che oggi imperversano per riscoprire gli autentici valori dell’ascolto, del silenzio, dell’esperienza, del tempo delle relazioni, dell’affettività.

Non approfondisco ognuno dei punti per non dilungarmi troppo, ma ognuno di essi è trattato con un tale impeto visionario e utopico da gettarmi nello sconforto ancora più dell’impietosa analisi effettuata su presente e passato. Perché se l’analisi del presente è corretta, non si capisce su quali presupposti possano trovarsi le energie necessarie per questa nuova società.

Soprattutto avverto un profondo e istintivo rifiuto verso un’idea che percorre tutto il saggio, qualche volta in modo esplicito, altre volte semplicemente rimanendo nell’aria come nota dominante. E’ l’idea che in fondo tutto si determini nel collettivo, nel plurale e non nel privato. Perché il problema è quello: in attesa di questa rigenerata società del futuro (che di per sé, anche se tratteggiata da una persona mite e pacifica come Andreoli, evoca qualche inquietante fantasma del passato) che facciamo? Cosa ci raccontiamo? Come viviamo la realtà di tutti i giorni?

Nessun padre o madre di famiglia affiderebbe mai nemmeno l’infima parte del destino, della felicità o della salute dei propri figli alla speranza di un’incerta e poco probabile catarsi collettiva.

Un conto è la giusta critica all’Io straripante che produce invidia, bramosia, conflitto, frustrazione. Ma ben diverso è lasciar intendere che, senza una società nuova, ogni personale tentativo di trovare un proprio soddisfacente equilibrio rischia di rivelarsi vano.

Il capitolo che mi è piaciuto di più di tutto il libro è quello intitolato “Relazione e educazione”. E’ quello dove Andreoli, attingendo anche alla sua esperienza di psichiatra e terapeuta, parla della paura. Tutta la storia dell’uomo, le sue relazioni, i suoi stati d’animo, i suoi desideri, le sue passioni più profonde ruotano attorno al tema della paura. Anche il male e la violenza affondano le loro radici nella paura.

Dice Andreoli: “Non ho alcun dubbio che la relazione sia un meccanismo inventato per allontanare la paura. La relazione è il punto di partenza per stabilire un legame, e il legame può raggiungere la qualità del sentimento, che ha la capacità di far avvertire la presenza dell’altro anche quando si è soli”.

Ecco, proprio basandomi su queste belle parole, che condivido, mi permetto di criticare le conclusioni a cui Andreoli arriva. Perché non c’è genitore al mondo (anche se non colto e intelligente come chi scrive libri e studia gli uomini e la società) che non voglia almeno provare a stabilire con i propri figli quel legame.

Il bisogno di vincere la nostra paura, e di dare ai nostri figli un appiglio contro la paura, non ci farà mai riporre tutte le nostre speranze in un ipotetico processo di rinnovamento della società.

Qualcosa faremo sempre, magari sbagliando tutto, seguendo l’istinto e l’ispirazione del momento.

Perché, come scriveva Sandro Pertini a sua mamma dopo il carcere, il confino, la malattia: “nella vita occorre talvolta saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”.

venerdì 25 aprile 2014

Giallo Rosso e Blu



Giallo Rosso e Blu - Kandinsky 1925
Olio su tela, 127x200 cm
Parigi, Centre Pompidou

E' il dipinto più importante tra quelli eseguiti durante il periodo del Bauhaus (1921-1933).
Traduce in immagine i principi elaborati nel testo teorico che K. scrisse nel 1912, "Lo spirituale nell'arte", nel quale si istituivano strette corrispondenze tra i colori primari e e le forme geometriche elementari che K. riteneva più affini ad essi.
Al giallo K. associava il triangolo, al rosso il rettangolo e al blu il cerchio.
In questo caso,il triangolo nella zona gialla è richiamato dalla diagonale che la attraversa sulla sinistra, il rosso trova posto nei due rettangoli che si intersecano al centro e il blu riempie la parte in alto a destra. Inoltre, per non appesantire il dipinto con eccessivo schematismo, si aggiungono altre forme (scacchiere, reti, linee sinuose) che K. tratta nel suo nuovo scritto teorico "Punto e linea nel piano" (1925).
La metà sinistra del quadro è chiara e leggera, grafica e lineare, quella destra più scura e pesante, con maggiore inventiva pittorica. Viceversa, il giallo "terreno" indica solidità, mentre il blu "celestiale" sembra volersi dileguare in altro a destra.
Si può cogliere qualche accenno di antropomorfismo tra le linee e i cerchi del campo giallo (che fanno pensare a un profilo umano) o nell'intreccio delle forme rosse e blu che ricordano il tema della lotta di S. Giorgio con il drago.
Scrive K.: "il cerchio, che utilizzo così tanto nell'ultimo periodo, a volte non può essere definito nient'altro che romantico. Ed il romanticismo futuro è davvero profondo, bello, significativo, e rende felici, è un pezzo di ghiaccio in cui brucia una fiamma. Se gli uomini avvertono solo il giaccio e non la fiamma, allora peggio per loro..."

Informazioni tratte da:
- Kandinsky, La collezione del Centre Pompidou (Mostra a Palazzo Reale, Milano 17 dicembre 2013-27 aprile 2014)
- Hajo Duchting, Kandinsky, la rivoluzione della pittura Gruppo Editoriale L'Espresso, 2001

LIBERTA'

"La libertà è come l'aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare"

Piero Calamandrei - Discorso sulla Costituzione, Milano 26 gennaio 1955 - Salone degli affreschi  Società Umanitaria

 http://cultura.libriantichionline.com/post/2013/03/piero-calamandrei-la-liberta-e-come-l-aria-ci-si-accorge-quanto-vale-solo-quando-comincia-a-mancare.html

Audio del discorso 
               

martedì 15 aprile 2014

La nostalgia felice





Di questo libro ho sentito parlare per la prima volta domenica  scorsa, durante la Messa.

Il sacerdote stava commentando il brano del Vangelo di Giovanni in cui Maria di Betania cosparge i piedi di Gesù di un costosissimo unguento profumato. Di fronte alle rimostranze (interessate) di Giuda, Gesù risponde: ”Lasciala fare perché essa lo conservi per il giorno della mia sepoltura”.  Dove  ciò che Maria avrebbe conservato non era tanto l’unguento, ma il ricordo di quel gesto d’amore, ricordo che avrebbe protratto nel tempo il legame stabilito dai sentimenti.

Questo romanzo parla delle piccole cose della nostra vita (gesti, parole, profumi, sapori) capaci di evocare ricordi e sentimenti, un po’come la proustiana maddalena.

Tanto mi basta per incuriosirmi e affascinarmi.

Mentalmente annotato e collocato (almeno nelle intenzioni) tra le me prossime letture.

Ho trovato anche questa interessante recensione.




sabato 12 aprile 2014

Dante Alighieri, Tanto gentile e tanto onesta pare



Tanto gentile e tanto onesta pare

La donna mia quand’ella altrui saluta,

ch’ogne lingua devèn  tremando  muta,

e li occhi no l’ardiscon di guardare



Ella si va,  sentendosi  laudare,

benignamente d’umiltà vestuta;

e par che sia una cosa venuta

da cielo in terra a miracol mostrare.



Mostrasi sì piacente a chi la mira,

che dà per li occhi una dolcezza al core,

che ‘ntender no la può chi no la prova;



e par che de la sua labbia si mova

un spirito soave pien d’amore,

che va dicendo a l’anima: Sospira.



Dante Alighieri, Vita Nova

sabato 5 aprile 2014

La mossa del cavallo




Vigata, 1877. In Italia governa da un anno la Sinistra di Agostino Depretis, che poco dopo avvierà insieme a Marco Minghetti, esponente dell’ala liberale della Destra Storica, la pratica del trasformismo. 

E’ ancora in vigore la tassa sul macinato, introdotta nel 1868, che tante rivolte produsse nel nord del Paese, soffocate militarmente con migliaia di arresti e centinaia di morti e feriti. Anche nella siciliana Vigata e nella vicina Montelusa, sede della Prefettura, c’erano state rivolte soffocate nel sangue. Nulla da stupirsi dunque se due funzionari dello Stato affamatore, due ispettori dei mulini, erano stati assassinati nel giro di pochi anni.

Il loro successore si chiama Giovanni Bovara, nativo di Vigata, poi trasferito quando era ancora piccolo a Genova.  Ritornato nei luoghi d’origine,  in lui convivono l’ordine e la disciplina del funzionario con molti anni di servizio nell’amministrazione sabauda, il dialetto genovese che gli sgorga spontaneo nei momenti di abbandono e di emozione (come quando “da giovane si confondeva per le donne”) e la natia arguzia e parlata siciliana, nascoste da qualche parte dentro di lui, ma pronte a uscire fuori al momento opportuno, per trarlo dagli impicci e dare scacco matto agli avversari.

Ci sono parecchie cose strane all’Intendenza di Finanza di Montelusa riguardo l’attività dei mulini, a cominciare da quella vera e propria “corte dei miracoli” costituita dal nutrito gruppetto di “sottoispettori” che avrebbero dovuto vigilare ognuno sulla sua porzione di territorio. Tutti erano stati “segnalati” per l’incarico dall’avvocato Fasulo, un uomo molto pio e gran benefattore e soprattutto buon amico di Don Cocò Afflitto, proprietario di mulini e terre nella zona, che come tutti i veri potenti non entra mai nella storia, ma se ne sta piuttosto sullo sfondo e nell’ombra. A muoversi, tramare, sudare, affannarsi sono sufficienti l’avvocato Fasulo, il delegato di pubblica sicurezza Spampinato e suo fratello Gnazio, l’intendente di Finanza Felice La Pergola, detto “lo scrafaglio merdarolo” e poi politici, ministri, vescovi:  sono in tanti a dover qualcosa a don Cocò.

In parellelo si svolge la gustosa vicenda di un prete donnaiolo, padre Artemio Carnazza. La sua porta  era sempre aperta per le devote parrocchiane che, dopo la messa del mattino, salivano le scale di legno che dalla sagrestia conducevano all’abitazione del “parrino”. Perché “patre Carnazza amava la natura. Non quella degli aciddruzzi, delle picorelle, degli àrboli, delle arbe e dei tramonti, anzi di quel tipo di natura egli altissimamente se ne stracafotteva. Quella che a lui lo faceva nèsciri pazzo era la natura della fìmmina che, nella sua infinita varietà, stava a cantare le lodi della fantasia del Criatore: ora nìvura come l’inca, ora rossa come il foco, ora bionda come la spica del frumento, ma sempre con sfumature di colore diverse, con l’erbuzza una volta alta che sontuosamente oscillava al soffio del suo fiato, un’altra volta corta corta come appena falciata, un’altra volta ancora fitta e intrecciata come un cespuglio spinoso e sarvagio. Sempre si meravigliava quanno che ne vedeva una nova, perché nova novissima era veramente con tutto il suo particolare da scoprire…”.

 L’ultima scoperta di patre Carnazza è donna Trisìna Cìcero, una “trentina mora, con gli occhi verdi sparluccicanti e due labbra rosse come le fiamme dell’inferno. Mischineddra, era rimasta vedova da tre anni.  Da allora si vestiva tutta di nìvuro, a lutto stretto, lo stesso però gli òmini quando che la vedevano passare facevano cattivi pinsèri, tanta grazia di Dio senza che ci fosse un màsculo a governarla”.

In realtà Donna Cìcero, “grandissima buttana”, si governava benissimo da sola e a padre Carnazza aveva imposto anche un  minuzioso tariffario: “la taliata di tutt’e due le minne nude, trecento grammi di zùccaro; una vasata senza lingua, mezzo chilo di farina; una vasata con la lingua, un chilo di pasta fina di Napoli; una vasata con la lingua e le due minne nude, tre tazzine di porcellana e relative sottotazze…”

Don Carnazza si era fatto molti nemici: gli invidiosi, i mariti cornuti, le amanti rimpiazzate, ma anche i poveri diavoli che lui strozzinava con prestiti da usura e i parenti  defraudati in questioni di eredità.

Succede che l’ispettore Giovanni Bovara inciampa, fisicamente e metaforicamente, in patre Carnazza e da quel momento le due vicende si annodano si avviluppano,  cacciando il Bovara in un mare di guai da cui abilmente riesce ad uscire riflettendo sulle differenze linguistiche tra italiano e sicilano, imparando bene una certa lezione con cui i suoi nemici volevano incastrarlo: “Quello la lezione se l’imparò e ce la sta mettendo nel culu para para!”

Interessanti anche gli scambi epistolari tra le diverse autorità, gli avvocati, i politici, scritte nell’italiano ampolloso e burocratico di fine ottocento, che si caratterizza come una terza curiosità linguistica, dopo il genovese (praticamente incomprensibile) e la parlata della Vigata di Camilleri.

Nell’ultimo capitolo i personaggi  del romanzo fanno dei sogni, che Camilleri racconta ispirandosi, fra gli altri a Kafka, Faulkner, Sciascia (qualche analogia tra il capitano Bellodi, il generale Dalla Chiesa e il ragionier Bovara ), Hemingway, Joyce, Proust.
Duecento pagine che volano via anche troppo in fretta.