sabato 26 aprile 2014

Impossibile è non provarci



Non è facile commentare un saggio scritto da un autore che si stima, per il quale si nutre rispetto e ammirazione, ma del cui contenuto non si condivide quasi nulla.

L’educazione (im)possibile di Vittorino Andreoli è un libro che mi ha messo molto a disagio, che ho letto con grande curiosità, sperando pagina dopo pagina di trovare la svolta che attendevo, e faticando sempre di più ad arrivare alla fine nonostante la qualità delle riflessioni dell’autore e il grande interesse dei temi trattati.

Perché ho fatto così fatica? Perché ho provato disagio?

Per due terzi il libro è un lungo elenco di riflessioni amare, di critiche al passato e al presente, strali acuminati che non lasciano speranze, come quei pensieri che tutti, genitori e non, a partire da una certa età lasciamo che ci attraversino la mente e il cuore (forse rappresentano la coperta di Linus di ex ragazzi che hanno ormai trascorso troppi anni nella fortezza Bastiani, mentre il mondo nel frattempo è andato avanti). L’ultima parte invece ripone le speranze di successo di ogni serio tentativo di educazione in un’utopica società nuova, nella quale possa fiorire un nuovo umanesimo, non più ciecamente fiducioso nelle qualità dell’uomo, ma vaccinato dalla crisi del Novecento e reso forte dalla consapevolezza dell’umanità fragilità.

Per chi è padre, o madre, è un discorso sconfortante. A costo di banalizzarlo (ma dobbiamo banalizzare un po’ le cose per riportarle sulla terra) significa questo: cari genitori, voi siete stati educati in un modo tremendo, con un sistema di regole buono soprattutto per generare una moltitudine di tranquilli e  innocui cittadini sottomessi al potere. Oggi state assistendo impotenti allo sgretolarsi delle istituzioni (a cominciare dalla famiglia e dalla scuola) che vi davano un’illusoria sensazione di sicurezza. Soprattutto, le (giuste) critiche all’autoritarismo del passato hanno provocato una vittima certa: il padre, che non ha più un suo ruolo in famiglia ed è diventato inutile, tanto da poter definire la nostra società come una società senza padri. Ma poiché ogni vuoto è destinato ad essere riempito, sempre più forte sta emergendo il nuovo indiscusso capofamiglia, ovvero il dio denaro che è impiegato prevalentemente in spese inutili, caratterizzando la nostra società (oltre che per l’assenza del padre) anche come società dell’inutile.

Abbiamo qualche speranza? No, così come stanno le cose non ce l’abbiamo: manca nei giovani (e non solo) qualsiasi percezione del futuro, senza la quale non ha senso parlare di educazione. In qualsiasi ambito (famiglia, scuola, relazioni, sesso, consumi, politica) si vive per soddisfare i bisogni primari del momento, senza fare progetti, senza capacità di attesa, senza fantasia, senza sogni.

E dunque? Dunque non resta che sperare in un altro mondo, magari in un’altra vita…

Scherzi a parte, il problema è proprio qui: Andreoli vede nella crisi attuale un’occasione di rifondazione della società che permetta di uscire dalle logiche economiciste che oggi imperversano per riscoprire gli autentici valori dell’ascolto, del silenzio, dell’esperienza, del tempo delle relazioni, dell’affettività.

Non approfondisco ognuno dei punti per non dilungarmi troppo, ma ognuno di essi è trattato con un tale impeto visionario e utopico da gettarmi nello sconforto ancora più dell’impietosa analisi effettuata su presente e passato. Perché se l’analisi del presente è corretta, non si capisce su quali presupposti possano trovarsi le energie necessarie per questa nuova società.

Soprattutto avverto un profondo e istintivo rifiuto verso un’idea che percorre tutto il saggio, qualche volta in modo esplicito, altre volte semplicemente rimanendo nell’aria come nota dominante. E’ l’idea che in fondo tutto si determini nel collettivo, nel plurale e non nel privato. Perché il problema è quello: in attesa di questa rigenerata società del futuro (che di per sé, anche se tratteggiata da una persona mite e pacifica come Andreoli, evoca qualche inquietante fantasma del passato) che facciamo? Cosa ci raccontiamo? Come viviamo la realtà di tutti i giorni?

Nessun padre o madre di famiglia affiderebbe mai nemmeno l’infima parte del destino, della felicità o della salute dei propri figli alla speranza di un’incerta e poco probabile catarsi collettiva.

Un conto è la giusta critica all’Io straripante che produce invidia, bramosia, conflitto, frustrazione. Ma ben diverso è lasciar intendere che, senza una società nuova, ogni personale tentativo di trovare un proprio soddisfacente equilibrio rischia di rivelarsi vano.

Il capitolo che mi è piaciuto di più di tutto il libro è quello intitolato “Relazione e educazione”. E’ quello dove Andreoli, attingendo anche alla sua esperienza di psichiatra e terapeuta, parla della paura. Tutta la storia dell’uomo, le sue relazioni, i suoi stati d’animo, i suoi desideri, le sue passioni più profonde ruotano attorno al tema della paura. Anche il male e la violenza affondano le loro radici nella paura.

Dice Andreoli: “Non ho alcun dubbio che la relazione sia un meccanismo inventato per allontanare la paura. La relazione è il punto di partenza per stabilire un legame, e il legame può raggiungere la qualità del sentimento, che ha la capacità di far avvertire la presenza dell’altro anche quando si è soli”.

Ecco, proprio basandomi su queste belle parole, che condivido, mi permetto di criticare le conclusioni a cui Andreoli arriva. Perché non c’è genitore al mondo (anche se non colto e intelligente come chi scrive libri e studia gli uomini e la società) che non voglia almeno provare a stabilire con i propri figli quel legame.

Il bisogno di vincere la nostra paura, e di dare ai nostri figli un appiglio contro la paura, non ci farà mai riporre tutte le nostre speranze in un ipotetico processo di rinnovamento della società.

Qualcosa faremo sempre, magari sbagliando tutto, seguendo l’istinto e l’ispirazione del momento.

Perché, come scriveva Sandro Pertini a sua mamma dopo il carcere, il confino, la malattia: “nella vita occorre talvolta saper lottare non solo senza paura, ma anche senza speranza”.

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