domenica 31 agosto 2014

Quando mancano le parole



La scrittrice belga Amélie Nothomb è nata e vissuta diversi anni in Giappone, Paese nel quale sono ambientati anche alcuni dei suoi libri.
Nella lingua giapponese esiste un termine che manca in altre lingue, per definire un concetto che sembra un ossimoro. Natsukashii è la nostalgia felice ed è ciò che si prova, come spiega la Nothomb, “nell’istante in cui la memoria rievoca un bel ricordo che la riempie di dolcezza”.
Non è un’emozione o un concetto che manchi alla nostra esperienza: manca piuttosto la parola, tanto che per esprimerla dobbiamo ricorrere ai segni esteriori e ai gesti, come Proust con la madeleine.
L’Occidente tende a considerare la nostalgia come una debolezza, la irride, la disprezza. La considera, per dirla con la Nothomb, “un valore passatista tossico”.
Io non sono né un esperto né tutto sommato un grande ammiratore del mondo orientale e giapponese in particolare. Però mi affascina quella capacità che a oriente c’è e a occidente molto meno, di stare in silenzio, di andare oltre le parole, di non lasciarsi prendere dal panico ogni volta che il torrente di suoni in cui siamo continuamente immersi si interrompe per un breve intervallo.
E poi siamo ossessionati dal “fare”. Dobbiamo riempire la nostra giornata e tutte le giornate della nostra vita, di parole, fatti, azioni. Spesso un libro giapponese o un film cinese ci irritano perché la sensazione è che non succeda mai nulla.
“La nostalgia felice” è un libricino di poco più di cento pagine, una sorta di diario della scrittrice che ritorna dopo molti anni nella terra della sua infanzia e giovinezza, dove incontra la sua vecchia tata, un suo ex fidanzato, la traduttrice e l’editore giapponese dei suoi romanzi. E visita la città di Fukushima dopo il terremoto dell'11 marzo 2011 e conseguente incidente alla centrale nucleare.
In cento pagine non succede effettivamente quasi nulla o viene raccontato in modo che sembra non succeda nulla. Eppure la scrittrice, con troupe televisiva al seguito, nei dieci giorni di permanenza sul suolo giapponese non si ferma mai: Shukugawa, Kobe, Kyoto, Fukushima e infine su e giù per Tokyo.
I fatti e i luoghi si intravedono appena, giusto per evocare un’emozione e lasciare alla fantasia del lettore il compito di interpretare ed estendere quell’emozione. Sembra di osservare quelle fotografie dove le immagini sono manipolate con varie tecniche per renderle più sfocate, o in negativo, o stilizzate. Come ci fosse uno schermo deformante a proteggere il pudore di chi racconta e a offrire infiniti spazi interpretativi ed evocativi a chi guarda, o legge.
Oltre al diario interiore, il libro ci offre anche una sorta diario di viaggio, con interessanti osservazioni (almeno per me, che non ne so nulla) sui luoghi di questo personale pellegrinaggio della memoria. La visita alla Fukushima del post terremoto, è occasione per un omaggio ad alcune virtù tipicamente nipponiche.
Il natsukashii può accendersi anche prendendo spunto da oggetti assolutamente ordinari come la biancheria, un canaletto di scolo, le fogne, le finestre dei bagni scolastici. Naturalmente, trattandosi di un viaggio nei luoghi dell’infanzia, c’è spazio anche per scivoli e altalene.
Il ripetuto collegamento tra scampoli di vita apparentemente irrilevanti e le più profonde cavità dell’anima qualche volta mi affascina e qualche volta mi sembra stucchevole. Mi evoca il “racconto della perversione” che Calvino incluse in “Se una notte d’inverno un viaggiatore”.
Quando le corde della nostra emozione non sono perfettamente in sintonia con quelle dell’autore, può essere che siamo noi un po’ insensibili, ma può anche essere che l’autore stia un po’ bluffando.
Oppure sta parlando a un selezionato gruppo di lettori. Nel caso della Nothomb: quelli che amano incondizionatamente il Giappone oppure quelli che hanno letto tutti o buona parte dei suoi libri. Io non appartengo né al primo gruppo, né al secondo e dunque mi rimane addosso per tutte le pagine un vago senso di spaesamento e di estraneità.
Al lettore italiano può infine succedere di avere un sussulto che la scrittrice belga non avrebbe mai pensato di provocare. Durante un viaggio in treno, la Nothomb si chiude in bagno per parlare al cellulare. Il pensiero va ovviamente ai logorroici conversatori telefonici di casa nostra, capaci di infliggere i più intimi dettagli dei fatti loro a interi scompartimenti ferroviari. Proporrei di mandarli in Giappone, o almeno di farli passare sotto lo sguardo accigliato della severa Amélie.

Resistere non serve a niente



Ho acquistato questo libro oltre un anno fa, subito dopo la sua vittoria al Premio Strega. Ad attrarmi non fu il premio in sé, ma il tema (la zona grigia tra criminalità e finanza) e alcuni giudizi più che positivi da parte di firme autorevoli (Massimo Gramellini: “l’autopsia a cuore aperto di un cadavere, il capitalismo finanziario degli ultimi decenni”; Goffredo Fofi: “un romanzo d’eccezione per la forza dei suoi confronti, la vivacità dei suoi squarci”).

Ho lasciato trascorrere un anno, non mi sono volutamente informato sull’autore, che non conoscevo, e un giorno di quest’estate mi sono deciso ad iniziare a leggere. Non so quale oscura forza o quale insana piega della mia personalità mi ha tenuto agganciato fino all’ultima pagina. Certamente hanno contato anche l’energia della scrittura (almeno questo devo riconoscerlo) e la mia tigna nel voler a tutti costi scoprire dove andava a parare questa “favola inversa”. Cercavo forse il guizzo finale capace di riabilitare fiumi di inchiostro tossico e inconcludente.

Purtroppo, in oltre trecento pagine non ho trovato nulla di interessante né di originale sul tema che il libro ha  la pretesa di analizzare e scandagliare. Ho trovato invece una visione del mondo cupa e funerea, elucubrazioni intellettualistiche noiosette e ripetitive inframmezzate a qualche sbirciatina al mondo del jet set televisivo, modaiolo e della finanza da fotoromanzo a sostegno del cinismo tipico di chi vuole distinguersi dalla massa delle persone normali, quelle “che fanno venire sonno solo a guardarle”, tecnicismi finanziari sparsi come il prezzemolo per ogni dove, propinati con l’entusiasmo ingenuo e la totale assenza di credibilità del neofita e, a dare più pepe al pastone, abbondanti cucchiaiate di misoginia e di pornografia che danno colore e nerbo a personaggi altrimenti vuoti ed inconsistenti. Dovendo esplorare una zona grigia, tutti gli uomini sono marci e amorali, va da sé, ma c’è un particolare e insistito accanimento verso le donne: non ce n’è una che non sia puttana, tutte si concedono, si vendono, si fanno sodomizzare con una velocità che probabilmente nemmeno nei filmetti pornografici è così fulminea, persino la madre del protagonista, persino la dodicenne figlia di un imprenditore con l’acqua alla gola, che viene venduta in modo criminale e infame dal padre, ma poi Siti infierisce anche su di lei facendola stare al gioco in cambio di una vittoria in una gara di roller, perché anche l’infanzia, dopo le donne, la famiglia e la normalità deve essere schifo e ribrezzo.

Tutto questo non mi convince, non è nient’altro che una lugubre favola che vorrebbe farci credere che il male del mondo trae origine da un pugno di malvagi corruttori e da una moltitudine di corrotti o corruttibili. Tesi molto assolutoria e consolatoria, io penso che la realtà sia un filino più complessa e che il male non provenga solo dai malvagi, ma spesso proprio da chi è convinto di fare del bene o almeno da chi agisce per una valida ragion di stato, o per un puro ideale da anima candida, o per un sano interesse imprenditoriale, o per il futuro dei propri figli, magari a scapito del presente dei figli di qualcun altro. Per non parlare dell’immensa quantità di male che proviene semplicemente dagli errori, dalle omissioni, dalla sciatteria, dalla negligenza, dall’ignoranza,  dalla superficialità, dall’indifferenza, dal conformismo, dall’appiattimento, dall’elogio della disponibilità che viene spacciata per meritocrazia, dalla paura, soprattutto dalla paura.

Della mafia dei colletti bianchi, delle incursioni della criminalità organizzata nel mondo della finanza e del business ci hanno già parlato magistrati, giornalisti, scrittori. Certamente c’è ancora tantissimo da scoprire e da capire, ma non mi pare proprio che Siti aggiunga nulla di nuovo, anzi ci offre una rappresentazione stereotipata e poco credibile, infarcita di situazioni fastidiose e sgradevoli descritte con linguaggio greve, solo parzialmente alleggerito dalla cultura dell’autore.

Resta il fatto che si tratta di un romanzo, non di un saggio sociologico, né di una inchiesta giornalistica. Il personaggio di Tommaso, l’ex bambino obeso, figlio di un soldato della malavita, che forgia il proprio carattere attraverso la solitudine, l’emarginazione e una spiccata attitudine per la matematica, all’inizio si lascia seguire nonostante non faccia alcuno sforzo per rendersi simpatico. Lo accompagniamo con curiosità fino alla fine dell’università e all’inizio della sua fulminea carriera, poi ci rincresce molto vederlo perdersi nella banalità dei rendez-vous con modelle e attricette varie e in improbabili speculazioni da videogame, giocate tra sceicchi arabi, bombaroli slavi e faccendieri sudamericani con l’unico risultato di dover frequentare controvoglia  qualche  manciata di  VIP della politica, dello spettacolo, della moda e della finanza.
Walter Siti è  letterato, critico e scrittore molto apprezzato, io invece sono uomo di poca cultura e dai gusti semplici e dunque può darsi che io questo libro non l’abbia capito. Ho sempre questo sospetto quando un’opera tanto celebrata è così lontana dal mio gusto e dalla mia sensibilità, anche perché in genere io sono un lettore piuttosto “ecumenico”. Sarà dunque un mio limite personale, ma io continuo a pensare che  non basta l’omosessualità esibita e sbandierata e la fama di studioso di Pasolini per eguagliare l’incisività, la lungimiranza  e l’anticonformismo dell’autore di Scritti Corsari. Soprattutto non basta il paravento dell’erudizione e della cultura personale per trasformare una furba accozzaglia di luoghi comuni, banalità e volgarità in un capolavoro. Però evidentemente basta per vincere il premio Strega

giovedì 28 agosto 2014

Stoner, di John Willliams



“Dal piccolo recinto spoglio e senz’alberi che conteneva suo padre, sua madre e qualche altro contadino, scrutò l’orizzonte in direzione della fattoria dov’era nato e dove i suoi avevano trascorso tutta la loro vita. Pensò al prezzo che avevano pagato, anno dopo anno, a quella terra che rimaneva com’era sempre stata, un po’ più arida, forse, e un po’ più parca di frutti. Nulla era cambiato. Le loro vite erano state consumate da quel triste lavoro, le loro volontà spezzate, le loro intelligenze spente. Adesso erano lì, in quella terra a cui avevano donato la vita e lentamente, anno dopo anno, la terra  se li sarebbe presi. Lentamente l’umidità e la putrefazione avrebbero infestato le bare di pino che raccoglievano i loro corpi, e lentamente avrebbero lambito la loro carne, consumando le ultime vestigia della loro sostanza. In ultimo sarebbero diventati una parte insignificante di quella terra ingrata a cui si erano consegnati tanto tempo addietro”.

Anche William Stoner, come suo padre e sua madre, era destinato in principio a diventare “una parte insignificante di quella terra ingrata”, ma poi il destino prese per lui una piega diversa, frequentò l’università, si appassionò agli studi, divenne ricercatore e, con la stessa muta dedizione con cui “a sei anni già mungeva le loro vacche ossute, dava da mangiare ai maiali nel porcile a poche iarde da casa e raccoglieva le minuscole uova delle vecchie galline nel pollaio”, con lo stesso tenace, servizievole e disciplinato impegno che a diciassette anni già gli aveva incurvato le spalle sotto il peso delle cose da fare, dedicò tutta la sua vita all’insegnamento e divenne una parte insignificante non della terra ingrata, ma di quell’università ingrata a cui si consegnò tanto tempo addietro.

Una vita apparentemente grigia, piatta, tanto da dubitare che fosse degna di essere vissuta e che nascondeva invece sotto la cenere della monotonia e dell’inettitudine una grande capacità di provare emozione e passione, pur non riuscendo mai a comunicarla, a trasmetterla, a lasciarla trasparire. L’emozione non ha voce, sembra proprio il caso di dire, fin dal momento in cui Stoner resta affascinato anche fisicamente dai muri dell’Università, ne percorre i corridoi, accarezza le copertine dei libri, ne inala l’odore di cuoio, resta annichilito e senza parole nel momento in cui è chiamato a commentare un sonetto di Shakespeare.

Una vita non facile, non felice, non fortunata, affrontata con la mite imperturbabilità del contadino che sa che a nulla serve lamentarsi del gelo, della grandine, della natura ostile e matrigna, ma si adatta al suo ambiente e trova il modo di conviverci, di amarlo persino, con un accanimento, un fatalismo e un’ostinazione che dall’esterno possono apparire ottusi e incomprensibili.

L’esterno, le apparenze, il mondo: non c’è persona meno interessata di William Stoner a cosa succede fuori e persino due guerre mondiali riescono soltanto a suscitargli un vago senso di malessere e di disagio per il terribile spreco di energie, di sangue, di gioventù, di speranze. Stoner, a cui la vita scivola addosso come su pietra liscia e compatta, da un lato ci affascina per la sua capacità di rimanere perennemente bambino, di conservare intatto il suo stupore, a sessant’anni come a venti, dall’altro ci fa arrabbiare perché lo vorremmo meno imbelle, se non per se stesso, almeno per le persone che ama.

In ogni caso, un’esperienza che non potrebbe essere più lontana dal nostro tempo dominato dagli affanni, dall’apparire, dall’esteriorità, da una competizione sempre sproporzionata rispetto alla posta in gioco. Tanto che alla fine ci domandiamo: ma non avrà ragione lui?

sabato 2 agosto 2014

buone vacanze



Da molto tempo non ho più aggiornato la pagina e il blog, ma non perché fossi in ferie.

Le notizie che hanno continuato ad arrivare da un mondo in guerra (dall’abbattimento del’aereo della Malaysia Airlines alle sconvolgenti cronache da Gaza e Israele, all’avanzata jihadista in Iraq e in Libia, alla Siria da anni martoriata, alle tante altre guerre dimenticate) avevano spento in me ogni desiderio di scrivere o intervenire pubblicamente su argomenti “frivoli” come i libri, la musica o il cinema, quasi che essi rappresentassero un incosciente e inconsapevole ballo sul Titanic.

A ciò si sono sommati impegni personali e di lavoro, perché alla vigilia delle ferie qualche richiamo ancestrale spinge il popolo degli uffici a svuotare i cassetti e a riesumare antiche pratiche e progetti ormai dimenticati, dando a tutti il bollino rosso della massima urgenza.

Ora però le vacanze sono arrivare anche per me. Vacanze di casa, di famiglia, di riposo e di risparmio, a cui dovremo abituarci a lungo e che probabilmente sono le migliori, se non fosse per quel sospetto di interpretare la parte della volpe di fronte all’uva nella favola di Esopo.

Auguro buone vacanze a tutti voi, a chi le sta già facendo, a chi le deve ancora fare e anche a chi le ha già fatte (possa il loro beneficio durare a lungo). Qualunque cosa vi consentano di fare il vostro portafogli, i vostri impegni e i vostri desideri vi sia propizia, benefica e salutare. E che la vostra salute e serenità contribuisca a portare un po’ di pace in questo mondo.

Perché, superato lo smarrimento iniziale, occorre difendere con tenacia l’idea che i libri e la cultura non sono affatto “frivoli” e c’entrano molto con la pace, la tolleranza, la libertà e il rispetto degli altri esseri umani. Nei libri, nell’arte, nella cultura si trova gran parte della bellezza , della creatività, della saggezza e dell’immaginazione che l’umanità è riuscita finora ad esprimere. Il problema è che gli oggetti in sé, pur carichi di valore e di significato, non ci portano da soli alla verità, né ci indicano la strada per trovarla. Sta all’uomo, all’uso che fa degli oggetti, il compito di trovarne l’utilità per la vita. Meglio leggere qualche libro in meno, ma leggerlo meglio, capirlo, criticarlo, uscirne trasformati e rafforzati e trovare l’energia per trasformare chi sta vicino a noi. Leggere pochi libri, ma continuare a desiderare che ne siano scritti tanti, perché più sono le voci, minore è il rischio del fanatismo, dell’integralismo, del pensiero unico di qualsiasi colore.

I libri e la cultura possono essere indossati come futili orpelli da esibire per escludere gli indegni e sentirsi parte degli eletti, oppure possono essere potente strumento di aggregazione, di inclusione, di pacificazione. Perché quando l’uomo dà il meglio di sé, difficilmente trovano spazio la violenza, l’odio, l’egoismo, la prevaricazione.

I libri da soli non possono fermare le guerre, ma un buon uso della cultura può contribuire a farlo (dovrebbero ricordarsene ogni tanto i Ministri degli Esteri di tutti gli Stati, invece di lavorare prevalentemente come agenti di commercio delle loro rispettive industrie nazionali). L’ozio può essere l’anticamera dei vizi, come il terreno su cui edificare grandi opere; qualche giorno di libertà da impegni e preoccupazioni quotidiane è una piccola-grande opportunità per tutti, un personale orticello in cui fare una buona semina per il futuro.

E allora, buone vacanze!