venerdì 16 gennaio 2015

Religiosità, secolarizzazione e la profezia di Pasolini

Strateghi, islamisti, sociologi, antropologi, intellettuali di vario tipo, un ricco apparato scientifico dedito allo studio, alla previsione e al controllo dei rischi che corriamo, per capire se siamo in guerra o se possiamo ancora sperare in bene. Li rispetto e soprattutto rispetto il loro lavoro, la loro competenza. Ma la mia indole poco scientifica, la mia convinzione che per credere non bisogna per forza toccare e che per conoscere serve qualche esperimento in meno e qualche riflessione in più, mi porta a preferire la visione che dei nostri giorni ebbe un poeta, uno scrittore, un regista che aveva previsto tutto, anche l'Isis, anche i bambini che uccidono, anche le bambine usate come bombe al mercato.
Pier Paolo Pasolini, nella sua trasposizione cinematografica della Medea di Euripide nel 1969, riuscì a raccontare l'epoca in cui viviamo con mezzo secolo di anticipo.
Nelle scene iniziali del film si assiste alla crescita e all'educazione di Giasone che, sotto la guida del centauro, raffina progressivamente le proprie convinzioni religiose, fino a liberarsene del tutto.
Poi parte alla conquista del vello d'oro, eroe di una società completamente secolarizzata che viaggia, conquista, commercia, sottomette. Niente per lui è sacro a parte l'uomo e il suo benessere. E' certamente sacra la vita. E' certamente sacra la libertà, tutte le libertà. Ma i sentimenti degli altri, quelli non sono sacri. Soprattutto se si tratta di sentimenti religiosi, perchè essi rappresentano l'antico, il primitivo, l'incivile, dunque possono essere calpestati, dileggiati, disprezzati, vilipesi. Oppure trascurati, ignorati, messi da parte come poco importanti, come una irrilevante escrescenza destinata a guarire da sè.
Medea è l'opposto; è maga in un villaggio dove gli dei, gli spiriti, la religione sono sacri e l'uomo non lo è , la vita umana non lo è: infatti nel villaggio si compiono sacrifici umani. Gli dei sono tutto, l'uomo è niente.
Gli uomini e le civiltà sono portate a incontrarsi e a scontrarsi, si attraggono e si respingono. Giasone e Medea si uniscono in matrimonio, il mondo si restringe, il seme della globalizzazione è gettato, Medea segue Giasone e si stabilisce a Corinto, crocevia di marinai, viandanti e mercanti, la più libera e libertina delle città antiche. Le società diventano multietniche, Medea dà dei figli a Giasone, i figli dell'integrazione, gli immigrati di seconda generazione.
Tra le vie di Corinto Medea, senza più radici, con un burqa mentale a offuscare il suo sguardo, si sente tradita, vinta, costretta a promiscuità con gente che disprezza e che la disprezza o peggio la compatisce. Fuori dal suo villaggio i suoi valori, i suoi sentimenti non contano, non sono niente, e Giasone è distante, vive sotto il suo stesso tetto, ma è risucchiato da un mondo che a Medea è estraneo e ostile.
La ribellione cova sotto la cenere e quando esploderà sarà terrbile, una catastrofe contro natura, il più atroce dei delitti, la madre che uccide i propri figli.
Insomma nell'anno di grazia 1969, in piena Guerra Fredda, quando tutto l'apparato militare-strategico-intellettuale studiava scientificamente, simulava e sperimentava i rischi di un conflitto tra superpotenze, un visionario che non aveva studiato a Berkeley, forte soltanto della sua cultura classica e della sua spiccata sensibilità, riuscì a spiegarci la società del XXI secolo, il delirio di onnipotenza dell'uomo secolarizzato, la selvaggia ribellione degli sradicati, il rogo a cui ci condanniamo se ci mettiamo a calpestare ogni valore, ogni sensibilità, ogni ideale che non sia gradevole al nostro palato e alla nostra idea di progresso.
Tanta roba, per essere solo un film. Ma dietro ci sono Euripide e anche le traiettorie dell'animo umano, che sono le stesse di sempre.

giovedì 15 gennaio 2015

Quattro novelle sulle apparenze




"Quattro novelle sulle apparenze", di Gianni Celati, è uno dei pochi libri, forse l'unico, che ho acquistato per la copertina. La foto (Alpe di Siusi, 1979) è di Luigi Ghirri. 

Ogni tanto mi capita di ripensare a quel libro, letto appena fu pubblicato nel 1987. Avevo venticinque anni. Ora che ne ho più del doppio, penso lo apprezzerei di più.
La prima novella, "Baratto", racconta di un insegnante di educazione fisica e giocatore di rugby che d'un tratto e senza alcuna apparente spiegazione smette di parlare. Gli erano finite le parole.
Il secondo racconto, "Condizioni di luce sulla via Emilia",cerca di spiegare l'ossessione di un pittore che insegue l'immagine in grado di catturare l'immobilità assoluta, incontaminata, quando invece tutta la nostra realtà è corrotta e inquinata da uno sfarfallio, da un movimento continuo che non ne permette né la comprensione, né la rappresentazione.
Il titolo del terzo racconto è "I lettori di libri sono sempre più falsi" ed è una divertente descrizione di come la lettura, la scrittura, il possesso e la vendita di libri siano altrettanti mondi autoreferenziali e poco comunicanti tra loro.
E infine, "La scomparsa di un nuomo lodevole" mette in contrasto la difficile psicologia di un uomo di mezz'età e quella di suo figlio adolescente.
Celati non è scrittore del tutto facile e il genere della novella filosofica non agevola una veloce comprensione. Ma forse non è necessario capire fino in fondo, è forse più una questione di sintonia su certe corde. Infatti, dopo quasi trent'anni, riesco ancora a percepire la scia, la riga, l'incisione che questa lettura ha lasciato dentro di me e che periodicamente riaffiora.
Purtroppo, non è difficile sentirsi stralunati e fuori dal mondo di fronte ai fatti di questi giorni. Come Baratto, mi sento un po' nauseato dalle parole, vorrei pensare e basta, chiudermi nel mutismo ed esporre il cartello "parole esaurite".
Oppure vorrei cercare di cogliere, come il pittore di "Condizioni di luce", la verità del mondo in un solo brevissimo lampo, capirla e poi morire, finalmente appagato e in pace con me stesso.
"I lettori di libri sono sempre più falsi" è perfetto per trovare riparo dal diluvio di "Je suis Charlie", chi non salta rozzo e fascista è, perchè la vita umana, la libertà di espressione, la fede religiosa, il rispetto per la sensibilità e per la cultura degli altri sono valori così potenti, intensi e imprescindibili che è un vero peccato indossarli per sentirsi solo un po' più belli invece di cercare di farseli diventare una seconda pelle, una tuta da lavoro, una divisa con cui affrontare la complessità di ogni giorno, cosa davvero non semplice per nessuno, anche nel nostro libero, progredito, ricco e laico occidente.
Curiosamente, il racconto che ricordo di meno, praticamente nulla, è il quarto, "La scomparsa di un uomo lodevole". A venticinque anni avevo ormai poco a che spartire con le "crisi adolescenziali" ed ero naturalmente all'oscuro di "crisi di mezz'età". Adesso, anche a causa di una figlia sedicenne che se le chiedi cosa hai fatto oggi, ti risponde "delle cose", forse potrei trovarci qualche cosa di familiare.