sabato 14 marzo 2015

Il rigore più lungo del mondo (seconda parte)


Seconda parte della lettura di "Il rigore più lungo del mondo" di Osvaldo Soriano durante Totem di Alessandro Baricco e Gabriele Vacis
"- Constante li tira a destra.

- Sempre, -disse il presidente della squadra.

- Ma lui sa che io so.

- Allora siamo fottuti.

- Sì, ma io so che lui sa, - disse el Gato.

- Allora buttati subito a sinistra, - disse uno di quelli che erano seduti a tavola.

- No. Lui sa che io so che lui sa, - disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire."


Il rigore più lungo del mondo (prima parte)


Prima parte della lettura che Alessandro Baricco e Gabriele Vacis fecero del racconto "Il rigore più lungo del mondo" di Osvaldo Soriano, che ci parla di un'epoca in cui il calcio non era ancora diventato il noioso show business di oggi.

Il rigore più lungo del mondo, di Osvaldo Soriano



Pubblicato nel 1994 all'interno della raccolta "Pensare con i piedi", Il rigore più lungo del mondo di Osvaldo Soriano è considerato da molti il più bel racconto sul calcio che sia mai stato scritto.










Il rigore più fantastico di cui io abbia notizia è stato tirato nel 1958 in un posto sperduto
di Valle de Rìo Negro, una domenica pomeriggio in uno stadio vuoto. Estrella Polar era un
circolo con i biliardi e i tavolini per il gioco delle carte, un ritrovo da ubriachi lungo una strada
di terra che finiva sulla sponda del fiume. Aveva una squadra di calcio che partecipava al
campionato di Valle perché di domenica non c'era altro da fare e il vento portava con sé la
sabbia delle dune e il polline delle fattorie.
I giocatori erano sempre gli stessi, o i fratelli degli stessi. Quando avevo quindici
anni, loro ne avevano trenta e a me sembravano vecchissimi. Dìaz, il portiere, ne aveva
quasi quaranta e i capelli bianchi che gli ricadevano sulla fronte da indio arcuano. Alla coppa
partecipavano sedici squadre e l'Estrella Polar finiva sempre dopo il decimo posto. Cedo che
nel 1957 si fossero piazzati al tredicesimo e tornavano a casa cantando, con la maglia rossa
ben ripiegata nella borsa perché era l'unica che avessero. Nel 1958 avevano cominciato a
vincere per uno a zero con l'Escudo Cileno, un'altra squadra miseranda. Nessuno ci badò.
Invece, un mese dopo, quando avevano vinto quattro partite di seguito ed erano in testa al
torneo, nei dodici paesi di Valle si cominciò a parlare di loro.
Le vittorie erano state tutte per un solo goal, ma bastavano a far rimanere il Deportivo
Belgrano, l'eterno campione, la squadra di Padìn, di Constante Gauna e di Tata Cardiles, al
secondo posto, con un punto di distacco. Si parlava dell'Estrella Polar a scuola, sull'autobus,
in piazza, ma nessuno immaginava ancora che alla fine dell'autunno avrebbero avuto ventidue
punti contro i ventuno dei nostri.
I campi si riempivano per vederli finalmente perdere. Erano lenti come somari e pesanti
come armadi ma marcavano a uomo e gridavano come maiali quando non avevano la palla.
L'allenatore, uno vestito di nero, con baffetti sottili, un neo sulla fronte e mozzicone spento tra le
labbra, correva lungo la linea laterale e li incitava con una verga di vimini quando gli passavano
vicino. Il pubblico ci si divertiva e noi, che giocavamo di sabato perché eravamo più piccoli, non
riuscivamo a spiegarci come potessero vincere se giocavano così male.
Davano e ricevevano colpi con tale lealtà e con tale entusiasmo che dovevano
appoggiarsi gli uni agli altri per uscire dal campo mentre la gente li applaudiva per l'uno a zero
e porgeva loro bottiglie di vino rinfrescate sotto la terra umida. La sera facevano festa nel
postribolo di Santa Ana e la Gorda Zulema si lamentava perché mangiavano le poche cose che
conservava nella ghiacciaia.
Erano diventati l'attrazione del paese e a loro tutto era consentito. I vecchi li raccoglievano nei
bar quando bevevano troppo e cominciavano ad attaccar briga; i commercianti li omaggiavano
di qualche giocattolo e di caramelle per i bambini e al cinema le ragazze Il accettavano carezze
al di sopra delle ginocchia. Fuori dal paese, nessuno li prendeva sul serio, neppure quando
avevano vinto con l'Atletico San Martìn per due a uno. Nel pieno dell'euforia furono sconfitti
come tutti quanti a Barda del Medio e sul finire dell'andata persero il primo posto quando il
Deportivo Belgrano li sistemò con sette goal. Tutti credemmo, allora, che la normalità fosse
stata ristabilita.
Ma la domenica dopo vinsero per uno a zero e continuarono nella loro litania di
laboriose, orrende vittorie e arrivarono alla primavera con un solo punto in meno rispetto al
campione.
L'ultimo scontro divenne storico a causa del rigore. Lo stadio era tutto esaurito e lo erano
anche i tetti delle case vicine e il paese intero aspettava che il Deportivo Belgrano, giocando
in casa, replicasse almeno i sette goal dell'andata. Il giorno era fresco e assolato e le mele
cominciavano a colorirsi sugli alberi. L'Estrella Polar aveva portato oltre cinquecento tifosi che
presero d'assalto la tribuna e i pompieri dovettero tirar fuori gli idranti per farli stare calmi.
L'arbitro che fischiò il rigore era Herminio Silva, un epilettico che vendeva biglietti
della lotteria nel circolo locale e tutti quanti capirono che si stava giocando il lavoro quando al
quarantesimo del secondo tempo si era ancora sull'uno a uno e non aveva fischiato la massima
punizione, anche se quelli del Deportivo Belgrano entravano a tuffo nell'area dell'Estrella
Polar e facevano capriole e salti mortali per impressionarli. Sul pareggio la squadra locale era
campione e Herminio Silva voleva conservare il rispetto di sé e non concedeva il rigore perché
non c'era fallo.
Ma al quarantaduesimo rimanemmo tutti a bocca aperta quando la mezz'ala sinistra
dell'Estrella Polar infilò una punizione da molto lontano e portò la squadra ospite sul due a uno.
Allora sì che Herminio Silva pensò al suo lavoro e allungò la partita fino a quando Padìn entrò
in area e appena gli si avvicinò un difensore fischiò. Fece uscire dal fischietto un suono stridulo,
imponente e indicò il punto del rigore. All'epoca, il luogo dell'esecuzione non era indicato con il
dischetto bianco e bisognava contare dodici passi da uomo. Herminio Silva non riuscì nemmeno
a raccogliere il pallone perché l'ala destra dell'Estrella Polar, Rivero, detto el Colo, lo stese con
un pugno sul naso. La rissa fu così lunga che scese la sera e non ci fu modo di sgomberare
il campo né di risvegliare Herminio Silva. Il Commissario, con una lanterna accesa, sospese
la partita e diede ordine di sparare in aria. Quella sera il comando militare decretò lo stato di
emergenza, o qualcosa del genere, e fece preparare un treno per allontanare dal paese tutti
quelli che non sembravano del posto.
Secondo il tribunale della Lega, che venne riunito il martedì seguente, si dovevano
giocare ancora venti secondi a partire dall'esecuzione del calcio di rigore, e quel match privato
tra Constante Gauna, il cannoniere, e el Gato Dìaz in porta, avrebbe avuto luogo la domenica
dopo, ullo stesso campo, a cancelli chiusi. Così quel rigore durò una settimana ed è, se
nessuno mi dimostra il contrario, il più lungo della storia.
Mercoledì marinammo la scuola e andammo nel paese vicino a curiosare. Il circolo
era chiuso e tutti gli uomini si erano riuniti sul campo, tra le dune. Avevano formato una lunga
fila per battere i rigori contro el Gato Dìaz e l'allenatore con il vestito nero e il neo sulla fronte
cercava di spiegare loro che quello non era il modo migliore di mettere alla prova il portiere.
Alla fine, tutti tirarono il loro rigore e el Gato ne parò parecchi perché li battevano con ciabatte
e scarpe da passeggio. Un soldato bassino, taciturno, che stava in fila, sparò un tiro con la
punta dell'anfibio militare che quasi sradica la rete. Sul far della sera tornarono in paese,
aprirono il circolo e si misero a giocare a carte. Dìaz rimase tuta la sera senza parlare, gettando
all'indietro i capelli bianchi e duri finché dopo mangiato s'infilò lo stuzzicadenti in bocca e disse:
- Constante li tira a destra.
- Sempre, -disse il presidente della squadra.
- Ma lui sa che io so.
- Allora siamo fottuti.
- Sì, ma io so che lui sa, - disse el Gato.
- Allora buttati subito a sinistra, - disse uno di quelli che erano seduti a tavola.
- No. Lui sa che io so che lui sa, - disse el Gato Dìaz e si alzò per andare a dormire.
- El Gato è sempre più strano, - disse il presidente della squadra nel vederlo uscire pensieroso,
camminando piano.
Martedì non andò all'allenamento e nemmeno mercoledì. Giovedì, quando lo trovarono che
camminava sui binari del treno, parlava da solo e lo seguiva un cane dalla coda mozzata.
- Lo pari? - gli domandò, ansioso, il garzone del ciclista.
- Non lo so. Che cosa cambia, per me? - domandò.
- Che ci consacriamo tutti, Gato. Glielo diamo nel culo a quelle checche del Belgrano.
- Io mi consacro quando la rubia Ferriera mi dirà che mi vuole bene, - disse e fischiò al cane per
tornarsene a casa.
Venerdì la rubia Ferreira badava come sempre alla merceria quando il sindaco entrò con un
mazzo di fiori e con un sorriso largo quanto un'anguria aperta.
- Questi te li manda el Gato Dìaz e fino a giovedì tu devi dire che è il tuo fidanzato.
- Poveretto, - disse la donna con una smorfia e nemmeno li guardò, quei fiori che erano arrivati
da Neuquén con l'autobus delle dieci e mezza.
La sera andarono al cinema insieme. Nell'intervallo, el Gato uscì nell'atrio per fumare e la
rubia Ferreira rimase sola nella penombra, con la borsa sulla gonna, a leggere cento volte il
programma senza alzare lo sguardo.
Sabato pomeriggio el Gato Dìaz chiese in prestito due biciclette e andarono a fare una
passeggiata sulla riva del fiume. Mentre iniziava il pomeriggio cercò di baciarla ma lei girò la
faccia e disse che forse gliel'avrebbe permesso domenica sera, se parava il rigore, al ballo.
- E io come faccio a saperlo? - disse lui.
- A sapere cosa?
- Se ridevo buttare da quella parte.
La rubia Ferreira lo prese per mano e lo portò fino al posto in cui avevano lasciato le biciclette.
- In questa vita non si sa mai chi inganna e chi è ingannato, -disse lei.
- E se non lo paro? - domando el Gato.
- Allora vuol dire che non mi vuoi bene, -rispose la rubia, e tornarono in paese.
La domenica del rigore partirono dal circolo venti camion carichi di gente, ma la polizia li
bloccò all'ingresso del paese e dovettero fermarsi accanto alla strada, ad aspettare sotto il sole.
A quei tempi e in quel posto non c'erano né televisori né stazioni radio né qualche altro mezzo
per seguire cosa succedeva su un campo chiuso, così quelli dell'Estrella Polar predisposero
una specie di staffetta tra lo stadio e la strada.
Il garzone del ciclista salì su un tetto da dove si vedeva la porta di Gato Dìaz e da lì avrebbe
raccontato quello che vedeva a un altro ragazzo che stava sul marciapiede e che a sua volta
lo avrebbe riferito a un altro che stava a venti metri e così via finché ogni particolare sarebbe
arrivato al punto in cui aspettavano i tifosi dell'Estrella Polar.
Alle tre del pomeriggio le due squadre scesero in campo vestite come se dovessero
giocare una vera partita. Herminio Silva aveva la divisa nera, scolorita ma in ordine quando
tutti furono schierati a centrocampo andò dritto verso el Colo Rivero che gli aveva dato il pugno
la domenica prima e lo espulse. Non era ancora stato inventato il cartellino rosso e Herminio
indicava la bocca del tunnel con mano ferma da cui pendeva il fischietto. Alla fine, la polizia
portò via a spintoni el Colo che sarebbe voluto rimanere a vedere il rigore. Allora l'arbitro andò
fino alla porta con la palla stretta contro un fianco, contò dodici passi e la sistemò a terra.
El Gato Dìaz si era pettinato con la brillantina e la testa gli risplendeva come una pentola di
alluminio.
Noi lo osservavamo appoggiati contro il muretto che circondava il campo, proprio dietro
la porta, e quando si dispose sulla riga di calce e prese a strofinarsi le mani nude cominciammo
a scommettere su quale lato avrebbe scelto Constante Gauna.
Lungo la strada avevano interrotto la circolazione e tutti aspettavano quell'istante perché erano
dieci anni che il Deportivo Belgrano non perdeva una coppa né un campionato. Anche i poliziotti
volevano sapere, e così lasciarono che la catena di staffette si dislocasse lungo tre chilometri e
le notizie correvano di bocca ritmate dalle contrazioni del fiatone.
Alle tre e mezza, quando Herminio Silva ebbe ottenuto che i dirigenti delle due squadre,
gli allenatori e le forze vive del popolo abbandonassero il campo, Constante Gauna si avvicinò
per sistemare la palla. Era magro e muscoloso e aveva le sopracciglia tanto folte che la faccia
ne sembrava tagliata in due. Aveva tirato tante volte quel rigore - raccontò poi - che lo avrebbe
rifatto in ogni momento della sua vita, sveglio o addormentato.
Alle quattro meno un quarto, Herminio Silva si dispose a metà strada tra la porta e il
pallone, portò il fischietto alla bocca e soffiò con tutte le sue forze. Era così nervoso e il sole gli
aveva tanto martellato sulla nuca che quando il pallone partì in direzione della porta sentì gli
occhi rovesciarglisi all'indietro e cadde di spalle schiumando dalla bocca. Dìaz fece un passo in
avanti e si buttò sulla destra. Il pallone partì roteando su se stesso verso il centro della porta e
Constante Gauna indovinò subito che le gambe del Gato Dìaz sarebbero riuscite a deviarlo di
lato. El Gato pensò al ballo della sera, alla gloria tardiva, al fatto che qualcuno sarebbe dovuto
accorrere per mettere in corner il pallone che era rimasto a rotolare in area.
El petiso Mirabelli arrivò per primo e la mise fuori, contro la rete metallica, ma Herminio Silva
non poteva vederlo perché stava a terra, si rotolava in preda a un attacco di epilessia. Quando
tutta l'Estrella Polar si rovesciò sopra al Gato Dìaz per festeggiare, il guardalinee corse verso
Herminio Silva con la bandierina alzata e dal muretto su cui eravamo seduti lo sentimmo
gridare : "Non vale! Non vale!"
La notizia corse di bocca in bocca, gioiosa. La respinta del Gato e lo svenimento dell'arbitro. A
quel punto sulla strada tutti aprirono damigiane di vino e cominciarono a festeggiare, sebbene
il "non vale" continuasse ad arrivare balbettato dai messaggeri con una smorfia attonita.
Fino a quando Herminio Silva non si fu rimesso in piedi, sconvolto dall'attacco, non arrivò
la risposta definitiva. Come prima cosa volle sapere "che è successo" e quando glielo
raccontarono scosse la testa e disse che bisognava tirare di nuovo perché lui non era stato
presente e il regolamento prescrive che la partita non si possa giocare con un arbitro svenuto.
Allora el Gato Dìaz allontanò quelli che volevano pestare il venditore di biglietti della lotteria al
Deportivo Belgrano e disse che bisognava sbrigarsi perché la sera aveva un appuntamento e
una promessa e andò di nuovo a mettersi in porta.
Constante Gauna non doveva avere molta fiducia in se stesso perché propose a Padìn di tirare
e solo dopo andò vero la palla mentre il guardalinee aiutava Herminio a stare in piedi. Fuori si
sentivano strombazzamenti festosi dei tifosi del Deportivo Belgrano e i giocatori dell'Estrella
Polar cominciarono a ritirarsi dal campo circondati dalla polizia.
Il tiro arrivò a sinistra e el Gato Dìaz si buttò nella stessa direzione con un'eleganza e
una sicurezza che non mostrò mai più. Constante Gauna alzò gli occhi al cielo e cominciò a
piangere. Noi saltammo giù dal muretto e andammo a guardare da vicino Dìaz, il vecchio, che
rimirava il pallone che aveva tra le mani come se avesse estratto la pallina vincente alla lotteria.
Due anni dopo, quando el Gato era ormai un rudere e io ero un giovanotto insolente, me lo
trovai ancora di fronte, a dodici passi di distanza, e lo vidi immenso, rannicchiato sulla punta
dei piedi, con le dita aperte e lunghe. Aveva al dito una fede che non era della rubia ma della
sorella del Colo Rivero, india e vecchia come lui. Evitai di guardarlo negli occhi e cambiai piede;
poi tirai di sinistro, basso, sapendo che non l'avrebbe parato perché era molto rigido e portava il
peso della gloria.
Quando andai a prendere il pallone nella porta, si stava rialzando come un cane bastonato.
Bene, ragazzo - mi disse. - Un giorno andrai in giro da queste parti a raccontare che hai
segnato un goal a Gato Dìaz, ma nessuno ti crederà.

martedì 3 marzo 2015

Bertolt Brecht, Vita di Galileo



Cosa c’è dietro l’abiura che nel 1633 Galileo Galilei pronuncia davanti all’Inquisizione? Niente, solo ciò che si vede e che è immediatamente comprensibile senza dietrologie: semplice paura del dolore fisico.

Bertolt Brecht ci consegna in questo dramma un ritratto realistico e materiale dello scienziato pisano che dialoga con il popolo, è afflitto da preoccupazioni economiche, non è privo di scaltrezze e senso pratico, beve vino, apprezza la buona tavola, scrive le sue opere in volgare anziché nel latino dei dotti, strapazza e si fa strapazzare dalla sua governante, ma soprattutto ha davanti a sé l’evidenza di una nuova era destinata a cambiare il mondo e tuttavia deve dissimulare l’eccitazione e barcamenarsi tra pericoli, trappole e fastidi di ogni genere.

Nel corso delle quindici scene, dove c’è spazio anche per battute di spirito e  passaggi divertenti, si scivola dalla commedia al dramma,  per giungere infine  ad un interrogativo sul ruolo degli scienziati nella società.

Brecht prima ci fa familiarizzare con il sanguigno scienziato accompagnandoci nel tinello di casa sua, lontano da cattedre, muffa e polvere. Poi ce ne mostra la grandezza, soprattutto nella rivoluzionarietà delle sue scoperte e nella sua lotta senza speranza contro le forze della conservazione (Galilei: “Signori, ve ne prego in tutta umiltà: prestate fede ai vostri occhi”. Matematico: ”Caro Galilei, ho ancora l’abitudine, anche se possa apparirvi antiquata, di leggere ogni tanto Aristotele: e, ve ne assicuro, quando lo leggo, credo ai miei occhi!”). Facciamo il tifo, trepidiamo, ci immedesimiamo, vorremmo che andasse a Roma e li stendesse tutti e poi, di fronte al suo cedimento, ci rifugiamo nel complottismo (l’avrà fatto per continuare a studiare! Per continuare a scrivere libri!) e rifiutiamo di usare gli occhi, rinnegando il suo insegnamento.

Bertolt Brecth vuole dirci che l’umana debolezza di Galilei è gravata di una grande responsabilità. La colpa di cui Galileo si è macchiato abiurando, secondo il grande drammaturgo, è di aver svuotato la scienza del suo significato sociale, di averla rinchiusa nel recinto delle dispute tra specialisti, fuori da ogni controllo e coinvolgimento popolare, e dunque libera di accettare ogni condizionamento e compromesso con il potere.

Brecht scrive la terza e ultima versione di Vita di Galileo dieci anni dopo il lancio della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki, con il mondo diviso in due blocchi contrapposti, ognuno dei  quali ha costruito un potente apparato scientifico, militare e accademico per affermare la propria supremazia sul mondo. In Galileo egli vede l’autore del peccato originale che pesa sulla coscienza di ogni successiva generazione di scienziati. “La bomba atomica, come fenomeno tecnico non meno che sociale, è il classico prodotto terminale delle sue conquiste scientifiche e del suo fallimento sociale” (Bertolt Brecht, Note alla Vita di Galileo).

Nella prima versione, completata in esilio nel 1938, Brecht rappresenta l’abiura di Galileo come un’astuzia per poter continuare a lavorare senza essere molestato dai suoi persecutori . Si tratta di un pensiero rivolto agli antinazisti rimasti in patria, perché continuino a vivere senza farsi scoprire sotto Hitler. Ma dopo gli orrori della guerra e in piena corsa verso il baratro delle superpotenze vincitrici, Brecht ci toglie ogni speranza.

L’ex allievo Andrea ancora si illude e dice al suo maestro: “Volevate guadagnar tempo per scrivere il libro che solo voi potevate scrivere. Se foste salito al rogo, se foste morto in un’aureola di fuoco, avrebbero vinto gli altri”.

E Galileo: “Hanno vinto gli altri. E un’opera scientifica che possa essere scritta da un uomo solo, non esiste”.

“Ma allora perché avete abiurato?”

“Ho abiurato perché il dolore fisico mi faceva paura”.

Con l’abiura, Galileo si conquista la possibilità di continuare a studiare per assecondare una sua personale voglia, un suo privato vizio e di ciò prova vergogna, consegnandosi sconfitto alla storia: “Se gli uomini di scienza non reagiscono all’intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l’uomo. E quando, coll’andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall’umanità.”