mercoledì 27 maggio 2015

Sotto la panza, il nulla



Non avrei mai pensato di leggere un libro di Bruno Vespa, ma questo è un regalo che ho ricevuto da una persona a cui voglio bene e dunque, poichè sono anche curioso e mi sforzo di vincere i mei pregiudizi, l'ho letto tra Natale e Capodanno trovandolo anche discretamente interessante.
Dalla tragedia delle due guerre mondiali, ai tempi drammaticamente intensi della prima Repubblica, alla farsa della cosiddetta seconda Repubblica, Vespa sforna aneddoti, retroscena, ricostruzioni non necessariamente condivisibili ma che riempiono le 350 pagine di questo volume in scioltezza e scivolano via come l’acqua, un po’ come le sue trasmissioni sui divanetti bianchi a tarda ora.
Da cronista politico di lungo corso, l’autore tratteggia un suo personale bestiario del tradimento, della vigliaccheria, dell’opportunismo che a suo parere costituiscono vizi antichi e sempre presenti nella classe politica italiana.
Solo la classe politica? A diversi mesi dalla sua lettura, questo libro mi ritorna in mente pensando a quanto si può essere voltagabbana, codardi e cinicamente opportunisti in altri contesti, quello lavorativo e aziendale in primo luogo. In politica, il voltagabbana è sempre un po’ ammantato dal velo ambiguo delle ideologie, delle tattiche e delle strategie. Nel mondo lavorativo invece il voltagabbana spicca in tutta la sua ripugnante nudità.
Il voltagabbana è l’emblema della mediocrità, è il cortigiano che si ingrassa alla corte del potente, ne asseconda i capricci, ne liscia abilmente il pelo e poi, quando questo cade in disgrazia, diventa il suo più disgustoso e stomachevole detrattore. Gli assenti sono sempre colpevoli, i capri espiatori lavano i peccati e le colpe di un intero clan e i servi più inetti approfittano della caduta del padrone per rifarsi di anni di silenziose umiliazioni.
I voltagabbana sono maschere eterne, deformi, che vivacchiano all’ombra di un parente nel consiglio d’amministrazione, di una telefonata al momento giusto, di un pettegolezzo, di una calunnia abilmente impepata e venduta con perfido tempismo, e risultano perfino caustici, brillanti e simpatici a un primo sguardo superficiale.
Fanno danni e lasciano il conto agli altri, soffiano sul fuoco, lanciano sassi e ritirano la mano, rifriggono idee sentite da altri come se fossero proprie salvo smentirle appena cambia il vento. Sono gommosi, malleabili e magmatici oltre l'immaginabile. Forti della loro ignavia, sono specialisti del rimbalzo, scaricano noie e problemi e creano intorno a sè obblighi morali di soccorso.
Il loro motto potrebbe essere: sotto la panza, il nulla.

giovedì 21 maggio 2015

Giorgio Fontana, Morte di un uomo felice




Alla fine mi è piaciuto. Parto da questa considerazione banale, che per me è anche l’arrivo di un percorso abbastanza travagliato.

Non mi è piaciuto subito questo romanzo vincitore del Campiello 2014: l’ho dovuto abbandonare dopo cento pagine, leggere qualcosa nel frattempo, riprendere vincendo lo scetticismo, ricominciare daccapo e farmi conquistare pagina dopo pagina, versando anche qualche lacrima nel finale, segno che emotivamente mi aveva ormai catturato.

Morte di un uomo felice è la storia di Giacomo Colnaghi, magistrato impegnato nelle indagini sul terrorismo rosso, nome di fantasia ispirato però ad alcuni casi realmente esistiti di uomini eroicamente normali, “eroi borghesi” per richiamare un titolo che ha aperto la strada a un filone affollato e fortunato a cavallo tra narrativa e testimonianza.

Giacomo Colnaghi viene assassinato nel 1981, lo stesso anno di nascita dell’autore, Giorgio Fontana. Non deve essere stato facile cercare di documentarsi su un periodo che non si è vissuto, ma del quale esiste ancora una memoria molto nitida e precisa in tante persone. Diciamo quindi subito che l’ambientazione è uno dei punti di debolezza di questo romanzo. Gli anni settanta possono essere descritti in tanti modi, ma non c’è dubbio che chi li ha vissuti si ricorda una caratteristica su tutte: erano anni iperpoliticizzati.

Tutto era intriso di politica, anche le cose che con la politica c’entravano poco o nulla: l’arte, il cinema, la musica, la letteratura, l’amore, lo sport, la scuola, la cronaca, l’economia, il lavoro, la religione, tutto.

Questo non emerge più di tanto nel romanzo, dove la nota che spicca è piuttosto il profumo di pulito e di ordine che si respira nelle case delle suore, semplicità, scherzi da prete, un po’ di noia, battute da sagrestia, Bernanos e riflessioni morali lontane anni luce dagli slogan virulenti e primordiali degli anni di piombo.

Colnaghi è un cattolico di sinistra, figlio di un partigiano ucciso dai fascisti, quelli veri, ma è anche un uomo che si interroga e vuole capire, partendo dalla sua storia di figlio, di padre, di marito, di cristiano praticante.

Il personaggio funziona, alla grande, e alla lunga si impone e fa scivolare il contesto in un secondo piano molto sfocato. Gli ambienti che frequenta, la sua storia personale, i suoi tormenti, la sua normale quotidianità sono un’alternativa valida, sana e pulita a percorsi molto più chiassosi e superficiali, che hanno goduto, e in qualche modo continuano a godere, di ampia popolarità mediatica.

Nel tentativo di darci una rappresentazione “viva” del protagonista, Fontana attinge forse un po’ troppo insistentemente alle proprie esperienze di studente fuori sede: le Ferrovie Nord (l’autore e il suo personaggio sono di Saronno), l’appartamentino a Lambrate, la bicicletta, la topografia minima dei luoghi dove si mangia “un panino stupendo”, la trattoria sui Navigli, le passeggiate notturne e solitarie nelle vie del centro, il bar di periferia.

Non riesce ad andare molto più in là, né ad immedesimarsi veramente nella psicologia di un uomo che si avvia alla mezza età: gli fa fumare la pipa (gesto totalmente fuori linea rispetto agli tratti del protagonista), gli crea dialoghi da sbadiglio con la moglie e un’astinenza sessuale prolungata. Stop. Funziona meglio con la madre, con il figlio e con gli amici, rapporti che il trentenne Fontana descrive in modo meno impacciato, trovandosi maggiormente a suo agio.

E allora perché funziona il protagonista e la sua storia? Vista dall’esterno, appare un po’ posticcia e stiracchiata, costruita su spunti un po’ scontati (il magistrato e il terrorista che partono dallo stesso ambiente sociale, frequentano entrambi l’oratorio e poi approdano a scelte di vita opposte) e su riflessioni non particolarmente originali (lo Stato che tradisce la Resistenza, i terroristi rossi che ne sporcano il nome e ne usurpano gli ideali) ma l’esterno non è il punto giusto dove posizionarsi. Ciò che inizialmente mi sembrava un ostacolo a proseguire nella lettura, successivamente l’ho interpretato come il segno di una scrittura ancora un po’ acerba, di una maturità ancora non raggiunta, nell’ambito di un’opera nell’insieme bella, utile ed efficace.

Il romanzo funziona nel momento in cui si capisce che non si tratta di un libro sugli anni di piombo.

Funziona quando si capisce che si tratta di una storia intima, che ci parla della difficoltà dei figli ad essere all’altezza dei padri, del paradosso per cui la normalità finisce spesso per diventare il vero eroismo, della difficoltà che le persone libere hanno ad esprimere se stesse, perché la loro indipendenza rischia continuamente di essere strumentalizzata da chi (la stragrande maggioranza) ha una concezione più tribale della vita, del lavoro, della società.

Da questa prospettiva riacquistano un senso i dialoghi scontati, i frammenti di piatta quotidianità che altrimenti sembrerebbero indice di scarsa fantasia e di scrittura esangue. Invece, silenziosamente e inaspettatamente, Giacomo Colnaghi e suo padre Ernesto, il partigiano Beppo la cui storia viene raccontata in parallelo a quella del figlio, riescono a conquistarti, ti ci affezioni, probabilmente li ricorderai bene e a lungo.

Il romanzo nasce da un interrogativo sulla giustizia, sul modo di fare giustizia, di essere magistrato.

L’autore lo dichiara nella nota finale: "questo libro forma un dittico ideale con il precedente Per legge superiore”. Un dittico sulla giustizia. Applicare le leggi in

modo cinico e notarile oppure spellarsi mani e piedi per cercare un diverso senso di giustizia, andare incontro a numerose frustrazioni e magari rimetterci la vita. Un interrogativo valido, importante, una grande questione su cui riflettere, ma anche il peccato originale del romanzo, che in certe parti risulta un po’ imbrigliato dai suoi stessi schemi.

In definitiva un’opera interessante, consigliabile, e uno scrittore da seguire nelle sue prossime prove.

lunedì 11 maggio 2015

Pablo Neruda, Amo el trozo de tierra que tù eres

Amo il pezzo di terra che tu sei,
perché delle praterie planetarie 
altra stella non ho. Tu ripeti
la moltiplicazione dell'universo

I tuoi grandi occhi son la luce che posseggo 
delle costellazioni sconfitte,
la tua pelle palpita come le strade 
che percorre la meteora nella pioggia.

Di tanta luna furon per me i tuoi fianchi,
di tutto il sole la tua bocca profonda e la sua delizia,
di tanta luce ardente come miele nell'ombra

il tuo cuore arso da lunghi raggi rossi,
e così percorro il fuoco della tua forma baciandoti,
piccola e planetaria, colomba e geografia.


Amo el trozo de tierra que tù eres,
porque de las praderas planetarias
otra estrella no tengo. Tù repites
la multiplicaciòn del universo.

Tus anchos ojos son la luz que tengo
de las constelaciones derrotadas,
tu piel palpita como los caminos
que recorre en la lluvia el meteoro.

De tanta luna fueron para mì tus caderas,
de todo el sol tu boca profunda y su delicia,
de tanta luz ardiente como miel en la sombra

tu corazòn quemado por largos rayos rojos,
y asì recorro el fuego de tu forma besàndote,
pequeña y planetaria, paloma y geografìa.

lunedì 4 maggio 2015

L'imperatore di Portugallia, una favola per adulti



L’imperatore di Portugallia è un romanzo scritto nel 1914 da Selma Lagerlöf (1858-1940), importante scrittrice svedese che vinse il premio Nobel nel 1909.

 Jan, un povero bracciante che vive con la moglie Kattrinna in un luogo sperduto della Scandinavia, diventato inaspettatamente padre,  si scopre un fortissimo attaccamento alla sua unica figlia, Klara Gulla.

Sul tema di questo grande amore, si sviluppa una storia apparentemente semplice e tuttavia precisa, nitida, intensa e ricca di emotività.

La forza dell’amore paterno, così grande e potente, diventa follia, cecità, chiaroveggenza, trasfigura una realtà troppo brutta per essere sopportata e la trasforma in sogno e poesia.

Capitoletti brevi, personaggi appena stilizzati, atmosfera fiabesca (siamo nella terra dei Troll) caratterizzano questo interessante e godibile romanzo, ma si avverte anche un profumo di nordica severità luterana, qualche nota agrodolce di moralismo didascalico alla De Amicis (in fondo il libro è stato scritto in un’epoca che non aveva ancora conosciuto due guerre mondiali e la frantumazione dei valori compiuta dal “secolo breve”) e, volendo esagerare, una pallida eco di un Re Lear, meno grandiosamente tragico, più tenero e mansueto, eppure a suo modo indimenticabile.

Ad avvolgere tutto ci sono le forze della natura, i boschi, il freddo e la luce delle terre del nord.