sabato 27 agosto 2016

William Klein, l'incontenibile geometria della strada




Al Palazzo della Ragione di Milano, fino all’11 settembre si può visitare la mostra fotografica dedicata a William Klein.

Mostra molto interessante su un artista poliedrico e anticonformista, che ha creato un suo personalissimo stile nella fotografia.

Nato a New York nel 1928 da famiglia ebrea di origini ungheresi, fin da ragazzo si appassiona all’arte e alla letteratura.  A quattordici anni inizia a studiare sociologia al college e a diciotto anni interrompe gli studi per entrare come operatore radio nell’esercito d’occupazione in Germania, poi a Parigi. Qui studia alla Sorbona con André Lhote e Fernand  Léger, conosce la moglie Florin  e diventa pittore. Le sue opere sono astratte e ispirate alle geometrie del Bauhaus, a Mondrian e Max Bill.

Nel 1952 viene chiamato da Giorgio Strehler a Milano per esporre al Piccolo Teatro. Subito dopo collabora con l’architetto Angelo Mangiarotti (Léger consigliava di lavorare come i pittori del Quattrocento, collaborando con gli architetti) per delle pitture murali che lui decide di eseguire su pannelli mobili, scoprendo l’enorme varietà di forme che si ottengono con la loro rotazione.

Nel 1954 torna a New York e senza avere particolari conoscenze di fotografia, realizza un diario fotografico della sua città d’origine, forse seguendo un altro consiglio di Léger: “Lascia perdere i musei e le gallerie, pensa solo alla strada.” Le immagini di Klein colpiscono perché sovvertono i canoni fino ad allora seguiti in fotografia, che si erano imposti soprattutto attraverso Henry Cartier Bresson, secondo il quale la fotografia doveva essere pulita, oggettiva, ordinata. Klein sovverte tutto questo in nome del realismo e dunque esegue primi piani molto ravvicinati, crudi, immagini a volte sfocate, o sgranate, sempre molto piene di persone e di oggetti, con molte linee di movimento al proprio interno. Per ironia della sorte, Klein fotografa con una macchina appartenuta proprio a Cartier-Bresson. Però rinuncia al tradizionale obiettivo 50 mm, privilegiando spesso il grandangolo da 28 mm per riempire il più possibile le sue immagini.

Ecco come lo stesso Klein descrive le sue prime esperienze fotografiche per le strade di New York: 

“Era come se fossi un etnografo: trattavo i newyorkesi come un esploratore avrebbe trattato uno zulu, cercando lo scatto più crudo, il grado zero della fotografia. Nel mio libro su New York, c’era un sottotitolo, stile tabloid. Trance Witness Revels. Tre parole che per me allora riassumevano tutto ciò che avevo da dire sulla fotografia. Chance Witness è chi capita per caso su una tragedia. Revels è un gioco di parole con reveals. Rivelare, ma anche gozzovigliare. Il tutto sotto il segno della trance. Riscoprivo la mia città e riscoprivo la fotografia. Privo di formazione e senza tante conoscenze, mi dovevo ingegnare con quello che ottenevo. La mia formazione era diversa: disegno, litografia, pittura – che tentavo di applicare alla fotografia. Quello che i professionisti avrebbero gettato nel cestino per me era un eccellente materiale da rilavorare”.


Il libro su New York ottiene un immediato grande successo. Nel 1956 Federico Fellini invita William Klein a Roma, chiedendogli di fargli da assistente per il film Le notti di Cabiria. Le riprese vengono tuttavia posticipate e così Klein inizia a girare per Roma con guide d’eccezione come Flaiano, Moravia e Pasolini. Nasce un libro fotografico anche su questa città.

 Ascoltiamo nuovamente Klein:

“Roma è la mia città fortunata. Nel 1956 pubblicai il mio libro fotografico su New York. All’epoca sorprese, sconvolse e influenzò un’intera generazione di fotografi. In quel periodo ero soprattutto un pittore astratto, ma la pittura geometrica e hard edge che praticavo non mi consentiva di dire la mia sul mondo intorno a me. Fu così che provai a sperimentare con la fotografia. Dopo il libro su New York sentivo di aver detto tutto quello che volevo con una macchina fotografica e il mio successivo obiettivo diventò il cinema. Ero un appassionato di Fellini e riuscii a combinare un incontro con lui a Parigi. Desideravo dargli una copia del mio libro. Lui mi disse: ce l’ho già, la tengo vicino al letto. Ma perché non vieni a Roma e diventi mio assistente? Ero nel cuore dei miei vent’anni e così senza problemi arrivai a Roma. Naturalmente Federico aveva già uno stuolo di assistenti ma, ad ogni modo lavorai con lui al casting di Le notti di Cabiria, documentando un intero esercito di prostitute e protettori. Il film però fu rimandato e io mi ritrovai a pensare:va bene ho fatto un libro su New York, allora perché non farne uno anche su Roma?”

 Klein collaborò a lungo con Vogue (anche il suo primo libro su New York fu realizzato per l’interessamento di Alex Liberman, pittore ed editore di Vogue America), ma anche come fotografo di moda fu sempre propenso a rompere gli schemi:
 

 “Quando mi mostrarono gli abiti mi fu immediatamente chiaro che le modelle avrebbero attraversato piazza di Spagna sulle strisce pedonali. Sfilando avanti e indietro, si sarebbero incrociate e avrebbero reagito l’una all’altra. Per appiattire la prospettiva, progettai di salire sulla scalinata della piazza e usare un teleobiettivo. Le ragazze passeggiarono avanti e indietro fino a quando iniziarono a catturare l’attenzione dei passanti. Ero in cima alla scalinata con la mia macchina fotografica, all’insaputa della gente. Gli uomini iniziarono a pensare che fossero prostitute impazzite e si avvicinarono, cercando di palparle. La direttrice di Vogue iniziò a innervosirsi, temendo se non uno stupro di gruppo, un blocco del traffico”.

Tra il 1959 e il 1960 Klein si reca in Russia per lavorare ad un libro fotografico su Mosca, che fu pubblicato nel 1964.

“Come tutti, anch’io mi ero fatto un’idea dell’Unione Sovietica.E nella mia mente c’erano anche le immagini di Vertov, Rodčenko e compagnia bella, così come le inquadrature televisive del Presidium, quelle mummie decorate con grugni che sembravano le porte di una prigione. Temevo che mi sarei ritrovato in una città chiusa, noiosa. Ma poi provai una sorta di emozione – niente a che vedere con la rabbia che mi ispirava New York – una specie di malinconia vagamente disperata, quasi tenera, non lontana dal sentimento che avevo provato, in gioventù, leggendo i romanzi russi”.




  
 Nel 1961 è la volta di Tokio, altra città e altro libro:

 





Infine non poteva mancare la città nella quale Klein ha scelto di vivere, fin dagli studi alla Sorbona e dalle sue prime esperienze come pittore, Parigi. Klein la ritrae prevalentemente piena di gente, frettolosa, multietnica, multiculturale, colorata, molto lontana dal cliché della città romantica e brumosa di tanti altri artisti.






Negli anni Novanta Klein ritorna alle origini, nel senso che riprende in mano i pennelli e rielabora alcune sue celebri opere:

“Ripresi in mano i pennelli per la prima volta dopo molti anni. Ma riprodurre le linee, i cerchi e le croci che tutti i fotografi del mondo usano per evidenziare gli scatti scelti non mi bastava.

Vidi la possibilità di inventare un nuovo tipi di oggetti artistici coniugando in modo organico, non arbitrario, pittura e fotografia.

Stranamente, il mio metodo di lavoro era completamente diverso da quello che utilizzavo quando stavo con Léger e anche dopo, al tempo delle astrazioni geometriche hard edge. Per Léger le pennellate di Van Gogh, Picasso e degli action painters erano bandite. Le forme dovevano avere contorni netti e superifici piatte… Ma quando iniziai a dipingere i provini ci furono solo pennellate di esultanza. L’esultanza della pittura richiamava la gioia che si prova scattando una fotografia. Per me scattare una foto era una gioia, era un’esperienza fisica che mi dava la carica”


lunedì 22 agosto 2016

Marco Malvaldi, Le regole del gioco

Il primo libro che ho letto di Marco Malvaldi non è uno dei suoi celebri romanzi gialli, ma un libricino nel quale l’ex ricercatore pisano ci intrattiene con grande verve su altre due sue grandi passioni: lo sport e la scienza.
E’ una lettura gradevole, nella quale la difficoltà delle teorie scientifiche è surclassata dal toscanissimo umorismo dell’autore e la pesantezza degli esperimenti è oscurata dai numerosi aneddoti e ricordi di Olimpiadi, Mondiali di calcio e competizioni varie.
Si parla di fisica, matematica, neuroscienza, psicologia, statistica, ma anche della “maledetta” di Andrea Pirlo, del “tiki taka” del Barcellona, di Dick Fosbury, di tuffi dal trampolino e di tennistavolo.
Insomma, Malvaldi ci offre persino qualche copertura intellettuale per le nostre ore trascorse sul divano a guardare lo sport in tv. Anzi fa di più, arrivando a sostenere un collegamento tra il nostro interesse per le gare sportive e l’evoluzione della specie.
Non è che si capisca proprio tutto al primo colpo, e spesso l’autore gigioneggia ricercando l’effetto “oh”, ma non è escluso che per qualcuno queste pagine costituiscano uno spunto interessante per successivi approfondimenti.
In definitiva, un libro furbetto ma simpatico, che a me è servito per avvicinarmi ad uno scrittore sul quale finora ho letto opinioni molto contrastanti.

mercoledì 10 agosto 2016

La Zagabria degli anni Trenta di Duro Janeković



Duro Janeković  (Zagabria 1912-Osijek 1989) è stato uno dei primi fotocronisti professionali della Croazia, che soltanto  negli ultimi anni  è stato riscoperto e rivalutato. Fu atleta (corridore, pattinatore e scalatore), reporter, professore universitario e pioniere dell’agro-ecologia in Croazia. 
A Milano in questi giorni (1-13 agosto) è in corso una mostra dedicata ai suoi scatti negli anni Trenta del secolo scorso. Molte foto dedicate allo sport, alla gente comune, a coloro che vivono ai margini della società. Janeković non giudica e non cerca l’effetto facile, si limita ad offrire frammenti di vita vissuta di Zagabria, la sua città che ama molto.







 
 “In uno stile che ricorda la miglior fotografia tedesca di quel tempo, le sue fotografie sportive annotano in prevalenza il movimento e l’uso di prospettive trasversali e di angoli di ripresa inusuali. 
 Nello sport e nella danza l’idealizzazione del corpo umano, finalmente libero, era predominante". (Marija Toncović, docente di storia della fotografia all’Università di Zagabria) 
 







 



 















 




"Nel raffrontare personaggi di differenti estrazioni sociali, le signore di città alle semplici contadine, soprattutto nelle scene dei mercati e delle fiere, riusciva a realizzare dialoghi spiritosi caratterizzati da allusioni farsesche e al ritmo della replica comica, tracciando con effetto i contorni civili del tempo".
(Marija Toncović)

 



 
 





 
   


 



 Gli anni Venti e Trenta rappresentano per il fotogiornalismo, grazie all’urbanizzazione, all’avvento della società dei consumi, e della diffusione dello sport e degli svaghi di massa, anni di grande creatività. (Marija Toncović)

 
  
























Sebbene fosse la stessa fotografia giornalistica a dettare il tema, l’occhio vivo di Janeković spostava spesso l’obiettivo dall’universale al particolare. Scorgeva segmenti di oggetti dall’apparenza non importanti e li traeva fuori dall’insieme. I dettagli delle foto scattate acquistavano così un’autonomia fuori dal contesto e una dignità che la stessa fotografia innalzava a livello di opera d’arte.” (Marija Toncović)


 


Riporto integralmente il commento di Marco Miglio, curatore della mostra milanese e  professore di cultura visuale e teorie della visione, CFP Bauer Milano: 
<<L’opera del fotografo zagrebese Duro Janeković  è stata valorizzata solo di recente in Croazia e, per questo motivo, è ancora del tutto sconosciuta in Italia.Oltre a presentare delle indubbie convergenze stilistiche con la fotografia modernista europea (Nuova Obiettività, Nuova Visione,Costruttivismo) il suo linguaggio è caratterizzato da tratti originali, di indubbio valore autoriale.

Innanzi tutto Janeković descrive la realtà attraverso quello che è visibile all’interno dei margini dell’inquadratura ma anche, e forse soprattutto, attraverso le relazioni che il fotografo intrattiene con il non fotografato e che il fotografabile intrattiene con il non fotografabile . La dimensione espressiva delle sue immagini oscilla tra il referenziale della realtà inquadrata e l’immaginabile di quello che è stato escluso dall’inquadratura, oppure non è rappresentabile fotograficamente. Janeković, oltre a mostrare, ci costringe a interrogarci su ciò che non riusciamo a vedere, perché al di fuori  dei margini dell’inquadratura oppure occluso o reso illeggibile dall’esposizione e dai fattori di contrasto.

Come gli abitanti delle periferie tirano avanti
Se osserviamo per esempio Come gli abitanti delle periferie tirano avanti, quello che suscita interesse non è solo il suo contenuto denotativo, ma anche la sapiente decontestualizzazione allusiva, che conferisce all’immagine una connotazione misteriosa e ambigua. Cosa c’è dietro lo steccato? Dove sta andando quella signora che affronta un "mare" di fango con tacchi, paltò e ombrello puntato verso il cielo? Qual è il suo destino? Questa immagine esprime, poeticamente, l’enigma dell’oggettività fotografica.
 
Madre e figlia sul tram

Lo stesso vale per un’immagine che mi colpisce per la sua delicata poesia Madre e figlia sul tram: una bambina, con il suo morbido pon-pon bianco tenuta teneramente in braccio dalla mamma, una elegante signora con cappellino. Anche in questo caso le scelte compositive ci portano a chiederci, più o meno consapevolmente, quello che entrambe, in sintonia, stanno osservando con tanto interesse, ma che, essendo stato escluso dall’inquadratura, rimarrà comunque e per sempre un mistero.

La fotografia di Janeković, attraverso le sue presenze, ci parla delle rispettive assenze. Ed in questo è profondamente esistenzialista. Il contenuto referenziale è spesso legato indissolubilmente a quello che, non essendo stato fissato sul negativo, è andato perso per sempre, cancellato dal flusso del tempo che passa, ma che, in virtù della costruzione retorica dell’inquadratura, continua a riverberarsi nell’immagine. Il realismo ontologico, connaturato al processo fotografico,contribuisce ad enfatizzare gli effetti di questa dinamica.

Stazione di servizio
 Nei momenti di maggiore ispirazione, questo aspetto assume addirittura connotati metafisici .In Stazione di servizio l’immagine di un benzinaio avvolto da una notte fredda e brumosa, seduto su uno scomodo sgabellino in attesa dei clienti, trascende il suo contenuto referenziale, per diventare rappresentazione di una condizione esistenziale che rimanda al significato stesso del concetto di attesa, ed è in grado di sintetizzare visivamente le teorie bergsoniane sul tempo.

Questo "realismo magico" che traspare dalle immagini del fotografo zagrebese, è forse il contenuto espressivo più significativo della sua opera, dalla quale emerge, a mio avviso, tutta la valenza intrinsecamente metafisica dell’immagine fotografica. Ed in questo, la fotografia di Janecović è pienamente autoriale.

Per questi motivi Duro Janeković , fotografo croato,  è un grande artista europeo. Europeo perché la sua opera, con i tratti di originalità che ho cercato di evidenziare, manifesta una comune sensibilità espressiva ed estetica con le più avanzate tendenze di ricerca che parallelamente vengono elaborate dai più interessanti fotografi europei. Artista perché utilizzando la fotografia in senso ‘pienamente fotografico’, riesce ad esprimere anche la dimensione metafisica di questo mezzo che, nella sua apparente oggettività meccanica, può tuttavia consentirci di accedere ad una nuova esperienza del reale: magica, straniante e misteriosa.>>