venerdì 9 settembre 2016

Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri


Nonostante un incipit tra i meno accattivanti che io ricordi (due pagine in linguaggio volutamente notarile che fanno da prologo) “La simmetria dei desideri”è un romanzo caldo, accogliente, coinvolgente, che dà tanto e dispiace moltissimo finire. Potete leggere la trama e altre interessanti recensioni su QLIBRI
Si parla degli “anni di gesso”, come più volte vengono definiti dall’autore, ovvero quel periodo tra i venticinque e i trenta durante il quale la vita inizia a ingabbiarsi in un corso definito, si compiono scelte importanti e le amicizie devono fare i conti con la perdita dell’incertezza spensierata e con i nuovi legami famigliari.
I protagonisti sono quattro ragazzi israeliani nati e cresciuti ad Haifa, ma trasferitisi a Tel Aviv per inseguire le tipiche aspirazioni di indipendenza, libertà e vita nella grande metropoli. Non c’è una vera e propria trama, ma solo alcuni punti di riferimento che fanno da filo conduttore. Anche lo stile è originale, apparentemente inconcludente, ma in realtà capace di avvolgerti con cerchi concentrici e di procedere un po’ avanti negli avvenimenti e un po’indietro con i ricordi, divertendo e non annoiando, e mettendo in risalto le caratteristiche di una bellissima amicizia, nella quale è bandita ogni reticenza e si rivelano con sincerità le cose belle e quelle brutte, il divertimento e la noia, il chiasso e il silenzio, l’avventura e la paura, il gioco e la fatica, l’amore e il tradimento, l’ammirazione e l’ invidia, gli scherzi, i litigi, il cazzeggio, la presenza, la lontananza, e soprattutto l’esserci sempre e comunque per il tuo “fratello”.
Il racconto procede calmo, coerentemente con il self-control di Yuval, il componente del quartetto che racconta in prima persona, riuscendo ugualmente a sorprenderti, come il flusso della vita. Il coach di scrittura creativa di Yuval lo rimprovera per il silenzio riguardo all’epoca in cui si svolgono gli eventi. “Descrivi i cambiamenti nei tuoi personaggi, ma ignori quasi completamente i cambiamenti drammatici avvenuti nel tempo e nel luogo di cui racconti”. Yuval giustamente si ribella e rivendica invece come titolo di merito aver lasciato sullo sfondo, come pallida eco, i rumori dell’intifada, degli attentati, delle bombe, le immagini del servizio militare, dei territori occupati, dei posti di blocco. Tutto questo si intravede ma è fuori dal romanzo, il lettore lo sa e anche per questo percepisce un’unione ancora più salda tra i quattro amici, rafforzata dal contesto drammatico in cui vivono.
A proposito di quartetto, di contesto drammatico e di geometrie. Nella serie TV Braccialetti Rossi, un personaggio teorizza che per formare un gruppo sono indispensabili: il leader, il bello, il furbo e l’imprescindibile. E naturalmente la ragazza. Nel nostro caso sappiamo che Churchill è il leader (anche chi non ha letto il romanzo può immaginare che quel soprannome non è dovuto a sigari o doppio mento, ma ad altre caratteristiche), Yuval (l’io narrante), è l’imprescindibile, ovvero il membro del gruppo senza il quale il gruppo stesso si sfalderebbe. Glielo dice chiaramente Churchill: tu sei il collante, lo sei sempre stato. Senza di te, Tel Aviv è un sacco di cose brutte, con te è casa. Yaara è naturalmente la ragazza. Ofir, per i suoi riccioli e per la facilità con la quale cattura lo sguardo delle ragazze dovrebbe essere il bello. Per esclusione, Amichai dovrebbe essere il furbo. Ma, per le caratteristiche del personaggio, lo definirei piuttosto il saggio (e meno male perché i parallelismi troppo perfetti tolgono poesia).
Non toglie affatto poesia invece la simmetria a cui allude il titolo del libro: alla fine lo ricorderete come un romanzo tenerissimo, che non fa nulla per sedurvi, eppure vi attrae per un forte profumo di autenticità, quella stessa autenticità indispensabile nelle vere amicizie.

martedì 6 settembre 2016

Numeri e parole, la difficile coesistenza





Nel mondo del lavoro circola spesso la battuta sugli avvocati che, trovandosi di fronte a qualsiasi numero, fosse anche un numero di pagina, si fermano e chiedono istruzioni sul da farsi. Viceversa, i colleghi impegnati in attività creative o di comunicazione faticano a intendersi con gli amministrativi e i tecnici che “ragionano solo a numeri”. Ma c’è davvero così incompatibilità tra parole e numeri? 

Proviamo a vedere le esperienze di scrittori celebri che, per caso, vocazione o necessità hanno svolto anche attività in cui i numeri sono importanti.

Raymond Chandler (1888-1959) l’inventore del detective Philip Marlowe, lavorò come contabile e poi come direttore per alcune compagnie petrolifere.  “Odiavo gli affari, ma nonostante ciò alla fine divenni funzionario e direttore di una mezza dozzina di società petrolifere indipendenti” (Parola di Chandler, 2011, la biografia attraverso le lettere e altri scritti) . Fu licenziato per ubriachezza nel 1932, a 44 anni.

Al contrario, la giallista argentina Claudia Piñeiro (n. 1960) dopo essersi laureata in Economia e Commercio ha fatto per dieci anni la contabile e la commercialista e non pare così traumatizzata da questa esperienza.

 Nathaniel Hawthorne ( 1804-1864) fu, come Geoffrey Chaucer (1343-1400), funzionario di dogana. Esperienza breve ma intensa, tanto che Hawthorne sentì il bisogno di raccontarla diffusamente nel capitolo introduttivo della Lettera Scarlatta. Giusto per dare un’idea: “Cercavo di calcolare quanto a lungo sarei potuto rimanere nella Dogana, con la possibilità di uscirne ancora un uomo”.  Infatti Hawthorne considerò una fortuna il suo licenziamento in seguito al cambio di amministrazione, perché così tornò a fare il letterato.

Anche Herman Melville (1819-1891) amico di Hawthorne  tanto da dedicargli Moby Dick, ricoprì l’incarico di ispettore delle Dogane,  ma seguendo una parabola più malinconica dell’autore della Lettera scarlatta: dopo l’insuccesso seguito alla pubblicazione di Moby Dick e di Bartleby  lo scrivano, rimase a svolgere questo lavoro per un ventennio, fino a pochi anni dalla morte.

Diverso il caso di Giuseppe Pontiggia (1934-2003) che alla sua esperienza lavorativa da bancario dedicò il suo primo libro, dall’eloquente titolo: La morte in banca. Sopravvisse andandosene presto.

Invece Italo Svevo (1861-1928) attese per vent’anni, senza particolare entusiasmo, al suo impiego alla Banca Union. Raccontò questa sua esperienza, addolcita dalle due ore trascorse ogni sera nella biblioteca civica, nel romanzo Una Vita.

Altro bancario celebre fu Thomas Eliot (1888-1965), mentre il poeta americano Wallace Stevens  (1879-1955) fece il dirigente assicurativo con buona soddisfazione, tanto da affermare: “i soldi sono una specie di poesia”. Soddisfazione che, come sappiamo, non era molto condivisa da un altro celebre impiegato assicurativo: Franz Kafka (1883-1924); eppure  non si fatica a credere che il tormentato e geniale scrittore praghese svolgesse il suo incarico con scrupolo e dedizione, come sostiene chi ha esaminato le sue perizie e relazioni.

Thomas Mann (1855-1975), fu invece impiegato assicurativo per un anno soltanto, ma l’esperienza famigliare e le vicende della ditta paterna gli ispirarono a soli venticinque anni un grandissimo capolavoro dove molto spazio viene dato al conflitto tra senso del  dovere e indole contemplativa.

Guy de Maupassant (1850-1893) fu un impiegato ministeriale, certamente non troppo zelante e pure raccomandato; in compenso John Milton( 1608-1674)  si impegnò con passione nell’amministrazione dello Stato. E anche il poeta Edmund Spenser  (1522-1599), suo connazionale, fu un abile funzionario governativo in un ambiente pieno di insidie come la corte della regine Elisabetta.

Cambiamo genere di numeri: dopo i contabili, i bancari, gli assicuratori e i funzionari pubblici passiamo agli ingegneri, ai fisici, ai ricercatori.

Marco Malvaldi (n.1974) prima di scrivere gialli è stato ricercatore in chimica industriale. Non rinnega la sua vecchia professione, anzi quando può la sfoggia.

Paolo Giordano (n.1982) è laureato in fisica e il suo omaggio ai numeri lo ha voluto inserire nel suo romanzo d’esordio, La solitudine dei numeri primi. E i numeri ha continuato a studiarli per un po'; dileguandosi, per sua stessa ammissione, al momento di iniziare a lavorare davvero.

Luciano De Crescenzo (n.1928) prima del successo come scrittore, uomo di spettacolo  e divulgatore di filosofia è stato a lungo ingegnere alla IBM.

Anche un innovatore del linguaggio come Carlo Emilio Gadda (1893-1973) esercitò a lungo la professione di ingegnere in Italia e all’estero. Mentre Salvatore Quasimodo (1901-1968) fu per dodici anni geometra al genio civile a Reggio Calabria, Firenze, Imperia e Milano.

Ingegnere del genio militare fu infine Fëdor Dostoevskij (1821-1881) ma per nostra fortuna si dimise dall’esercito molto in fretta.

Anche Robert Musil (1880-1942) fu ingegnere e professore universitario, però fu anche tante altre cose;  questo non gli impedì di scrivere, nell’Uomo senza qualità: ”Erano invasati dalla paura di non aver tempo per tutto, e non sapevano che aver tempo significa precisamente non aver tempo per tutto”.

Insomma, tirando le somme sembra che effettivamente la coesistenza tra numeri e parole, tra economia, tecnica e letteratura non riscuota generalmente grandi entusiasmi.  Chi può, abbandona la dura e grigia realtà dei numeri per fuggire verso il colorato e affascinante mondo dell’alfabeto.

Soltanto Adriano Olivetti riuscì a portare in fabbrica non solo libri e biblioteche, ma anche scrittori, poeti e intellettuali.

Nel lavoro,  diceva Italo Calvino, in qualunque tipo di lavoro, ciò che conta è il metodo, l’impegno costante, ripetitivo, artigiano. Su questa robusta e solida tavolozza, costruita con fatica e tenacia, puoi alla fine incollare le ali di farfalla, il guizzo della fantasia. Ma se manca la base, se ci sono soltanto le ali di farfalla, non avrai realizzato altro che una marmellata fragile, effimera e inconsistente.

Si capisce però che, potendo scegliere, questa tavolozza ognuno  voglia costruirsela nel campo che più gli aggrada. Preferibilmente lontano dagli uffici e dal lavoro organizzato dagli altri.

sabato 3 settembre 2016

Nathaniel Hawthorne e lo spoil system



Nel 1848 Nathaniel Hawthorne, allora supervisore alla Dogana di Salem, fu licenziato a causa del cambio dell’amministrazione governativa.  Per lui fu un’autentica fortuna, come spiegò nel capitolo introduttivo della "Lettera Scarlatta" pubblicato due anni dopo, perché da quel momento si dedicò a tempo pieno alla scrittura e riuscì a vivere dei proventi della sua carriera di letterato.

Le parole seguenti sono però da ricordare ogni volta che (il riferimento alla cronaca recente non è causale) nelle aziende a forte influenza pubblica e nell'amministrazione statale, regionale e comunale viene realizzato il cosiddetto “spoil system”.

 "Per dare un completo quadro dei vantaggi della vita di un impiegato è necessario considerarlo all’inizio di un’amministrazione ostile. La sua posizione è, allora, sotto ogni punto di vista, una delle più moleste e sgradevoli che un infelice mortale possa sperimentare, tanto più che, ben di rado, ha la possibilità di un’alternativa migliore, sebbene quella che gli appare la peggiore, molto probabilmente, possa essere proprio la sua fortuna. Ma è proprio una strana sensazione, per un uomo dotato di qualche orgoglio e sensibilità, quella di sapere che il suo destino dipende da individui che non lo amano né lo capiscono, e dai quali, - poiché la scelta è confinata a queste due alternative – preferirebbe subir danni che non ricever favori.  Strano pure, per uno che ha mantenuto la sua calma durante la contesa, osservare la sete di sangue che improvvisamente si manifesta nell’ora del trionfo, ed esser conscio che egli è una delle vittime designate. La natura umana possiede pochi tratti più ripugnanti di questa tendenza – che ho osservato in uomini niente affatto peggiori del loro prossimo – a diventar crudeli, semplicemente perché posseggono la capacità di fare del male. Se la ghigliottina – cui sono condannati gli impiegati in carica – fosse una realtà invece di costituire semplicemente una delle più calzanti metafore, sono sinceramente persuaso che i membri attivi del partito vittorioso sarebbero così eccitati da farci tagliar la testa e ringraziare il cielo della splendida occasione che hanno avuto."
Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta



giovedì 1 settembre 2016

Elizabeth Strout, I ragazzi Burgess




“I ragazzi Burgess”, penultimo romanzo di Elizabeth Strout, ci parla della complessità dei rapporti famigliari, di quanto possono essere chiuse le piccole comunità paesane, della difficoltà di capirsi fra diversi, ma è anche una lettura godibile e rilassante, come guardare una commedia holliwoodiana anni ’50 alle cinque del pomeriggio. Potete leggere la trama e altre recensioni qui.

Il prologo, nel quale due vedove, madre e figlia, conversano e rievocano le comuni conoscenze , scostando pensosamente le tende per guardare le betulle, dà il tono all’intera narrazione, come se l’autrice volesse ammorbidire l’impatto degli eventi più drammatici, stemperandoli nella luce tiepida del suo stile confortevole.

Seguendo i personali ricordi delle due signore, si fa velocemente amicizia con Jim, Bob e Susan Burgess, si conoscono i rispettivi coniugi e anche Zachary, il ragazzo ignorantello e impaurito che dà impulso alla storia e ne sostiene la trama fino almeno a metà.

Nella prima parte i personaggi sono vivi e credibili, pur riconducendosi ciascuno a qualche archetipo del cittadino americano, e sono ben inseriti in tematiche culturali e sociali appena tratteggiate, per non disturbare troppo i personaggi in primo piano, eppure rese efficacemente.

Da metà in poi, il romanzo ha una svolta, il motore iniziale della storia rallenta e si spegne e rimangono i personaggi, soli e nudi e senza maschera. “Nessuno mi può giudicare” potrebbe essere il titolo di questa seconda parte o, come la vedova più anziana afferma nel prologo, “nessuno conosce mai veramente qualcuno”. E' nella seconda parte che l'attenzione si sposta dalle dinamiche sociali a quelle famigliari.

L’eroe abile, disinvolto e pragmatico della prima parte, quello attento ai bisogni e alle debolezze umane (per prendersene cura, nel caso dei propri familiari, oppure per sfruttarli a proprio vantaggio, nel caso di avversari e ostacoli nella battaglia per la vita), il self made man che non sopporta i gretti razzisti ma è ugualmente allergico alle ipocrisie dei moralisti di professione e infastidito dal fanatismo del “politically correct”,  l’uomo fuggito dall’ambiente chiuso del Maine e che riesce a non farsi fagocitare dalla Grande Mela, il professionista di successo, il marito invidiato, il padre che tutti vorrebbero avere ha un suo lato oscuro. Non sorprende che ci sia, perché ce lo aspettavamo e avevamo messo in conto che potesse essere esattamente “quello”.  Sorprende piuttosto che questa scoperta abbia il potere di mandare in frantumi il personaggio e buona parte del mordente della storia.

Il romanzo funziona ancora, perché a questo punto il lettore è stato saldamente agganciato all’amo, però non c’è più la naturale scioltezza dell’avvio.

Una volta chiuso e rimesso il libro al suo posto sullo scaffale, ci capiterà di ripensare a Jim, Bob, Susan, Hellen, Pam e Zach come a persone incontrate in una lunga e piacevole vacanza, che ci hanno fatto divertire, ci hanno confidato qualche segreto e resi partecipi di qualche angoscia, senza tuttavia risultare mai invadenti, né noiosi. Tutti insieme ci hanno confermato che la famiglia è un delicatissimo intrico di sottili equilibri e che gli Stati Uniti d’America sono un posto dove è molto complicato nascere, crescere e vivere. Insomma, ce n’è di che rimanere soddisfatti, alle cinque del pomeriggio, tra un biscottino e l’altro, con il sole che filtra delicato dalle tende, mentre fuori il vento accarezza le betulle.
“Che cosa farò, Bob? Non ho più una famiglia”.

“Sì che ce l’hai”, rispose Bob. “Hai una moglie che ti odia. Tre figli che ce l’hanno a morte con te. Un fratello e una sorella che ti fanno impazzire. E un nipote che una volta era una nullità, ma a quanto parte ultimamente lo è un po’ meno. Questo è ciò che si definisce una famiglia”.