sabato 15 ottobre 2016

Hawthorne, lo scrittore e l'ispirazione


"Il lume di luna in una stanza familiare, che piove così bianco sul tappeto e ne rivela tutte le figure con tanta precisione – e rende così visibile ogni singolo oggetto, e tuttavia lo presenta in una luce tanto diversa da quella del mattino o del meriggio – è il mezzo più adatto per uno scrittore di romanzi, che voglia far conoscenza con gli ospiti della sua fantasia. Sulla piccola scena domestica del ben noto appartamento, ogni sedia possiede la sua distinta personalità; la tavola di mezzo sostiene un cestino da lavoro, uno o due volumi, una lampada spenta; il sofà, la libreria, i quadri alle pareti: tutti questi particolari, visti così chiaramente, sono come spiritualizzati dalla luce insolita, tanto che paiono smaterializzarsi per diventare creazioni della fantasia. Non v’è nulla di troppo piccolo e troppo insignificante che non subisca questa trasformazione, in tal modo acquistando un’importanza speciale. La scarpetta di un bambino, la bambola seduta nella sua carrozzella di vimini, il cavalluccio di legno, insomma, tutto ciò che è stato usato o col quale si è giocato durante il giorno, ora si trova stranamente remoto, sebbene rimanga vivo e presente come durante il giorno. E così il pavimento della nostra stanza familiare è divenuto un territorio neutro, che si trova tra il mondo reale e i reami del sogno, dove il Vero e l’Immaginario possono incontrarsi e ciascuno assumere la natura dell’altro." 
Nathaniel Hawthorne, La lettera scarlatta (capitolo introduttivo, La dogana)

domenica 2 ottobre 2016

George Simenon, I complici




Joseph Lambert all’età di nove anni ebbe un gran mal di denti. “Il dentista gli aveva dato due compresse bianche, probabilmente un calmante, e poiché dopo pranzo il dolore era tornato a farsi sentire, molto forte, lui le aveva buttate giù tutte e due”.

Poi andò a riposare in giardino, sotto un tiglio, in uno stato fluttuante tra sogno e realtà, nel quale le sensazioni fisiche si dissolvevano e galleggiando lo cullavano regalandogli un senso di pace morboso e gratificante. “Che fosse il caldo, il torpore che segue al pranzo o l’effetto delle compresse…  Fatto sta che continuava a sentire dolore alla guancia sinistra, ma non si poteva più chiamarlo dolore, trasfigurato com’era in piacere, in una sorta di voluttà, la prima, insomma, che avesse conosciuto.”

Quel ragazzino divenne un uomo sanguigno, energico, muscoloso , dai lineamenti marcati e il naso grosso e tozzo come suo padre, un muratore che con la forza delle braccia, schiena curva e sudore aveva creato un’impresa con officine, magazzini, uffici, dipendenti e svariati cantieri nella zona. Joseph portò nuove idee e sviluppò ulteriormente l’azienda paterna con mani sicure, fiuto ed esperienza. Eppure per tutta la vita continuò a rincorrere quella dolce dissoluzione nel nulla, quel torpore e quel mal di vivere che sperimentò per la prima volta a nove anni, a causa di un banale mal di denti, di un caldo dopo pranzo e di due compresse. Lo fece con l’alcol e soprattutto lo fece con le donne.

Al contrario dei suoi amici del caffè Riche, con i quali si ritrovava per il bridge e per qualche buon bicchiere, Joseph non sentiva il bisogno di dissimulare i suoi numerosi tradimenti coniugali, anche quelli più squallidi con prostitute. Non che li esibisse con ostentazione, ma nemmeno provava quell’imbarazzo che spinge a rifugiarsi nell’ipocrisia.

L’alcol, le donne, la voluttà erano il suo modo di dire no alla provincia, alla noia, ai doveri, alle responsabilità, alle anime belle, ai parenti soffocanti, alla domestica bigotta e rancorosa, ai due fratelli, un insopportabile sgobbone precisino e un alieno flaneur sparito in qualche circolo intellettuale a Parigi. La voluttà era la sua grande forza di attrazione, il magnete che lo richiamava costantemente verso l’abisso.

Una sera Joseph sorprese la sua efficientissima ed enigmatica segretaria Edmonde sdraiata sullo schienale reclinato, con il vestito alzato fino al ventre, una mano in mezzo alle cosce e un impercettibile movimento di dita. Rimase a guardarla fino al momento dell’orgasmo, notando le narici contrarsi e “il labbro superiore rialzarsi scoprendo i denti in una smorfia di sofferenza che non somigliava per niente ad un sorriso”.

Da quel momento Edmonde diventò, unica tra le tante amanti, la perfetta complice con cui condividere il suo insanabile mal di vivere.

La complicità dell’anima ebbe occasione e necessità di trasformarsi in complicità nel male quando l’incessante corsa verso il danno e la catastrofe giunsero alla meta finale, che non poteva essere più straziante: un pullman con quarantotto bambini a bordo esce di strada, si schianta e si incendia. Quarantasette bambini morti, più due maestre e l’autista, una bambina che lotta tra la vita e la morte e  un solo responsabile: Joseph Lambert alla guida della sua Citroen con la mano sinistra, la mano destra immersa tra le bianche cosce della sua obbediente segretaria.

E’ da qui che parte la storia, da una tragedia che avrebbe potuto trasformare Joseph ed Edmonde negli amanti maledetti già visti in Teresa Raquin. Avrebbe potuto, ma in questo caso il percorso è un altro e si appoggia sull’enigma Edmonde, un personaggio inquietante  che non si dimentica facilmente, e a cui serviva tutta la fantasia perversa e misogina di Simenon per prendere forma e vita.

Nei confronti di Joseph invece, nonostante l’indicibile gravità della tragedia provocata, tendiamo ad essere inspiegabilmente indulgenti e ad assecondare in parte il suo istinto auto assolutorio. “Non sono colpevole”, scrive lui ad un certo punto, ma poi ci ripensa, troppo difficile da spiegare, occorrerebbe essere capaci di srotolare quella matassa ingarbugliata che ha iniziato a formarsi tanti anni fa, in un assolato pomeriggio trascorso da un ragazzino in preda di un acuto mal di denti.

Con questo romanzo sono tornato a frequentare, dopo tanto tempo, il vecchio Simenon. E ancora una volta sono rimasto colpito dalla perizia consumata di questo grande narratore. Con pochi tratti sapienti, riesce a costruire un quadretto vivo e credibile di una cittadina di provincia, con i suoi bar, i suoi circoli, le fattorie, i salariati, i  notabili, le famiglie, le prostitute, le maschere antiche e sinistre di coloro che vivono ai margini del villaggio. In centocinquanta pagine veloci ci rende partecipi dell’inquietudine di un’anima, degli arrovellamenti che seguono un misfatto e del mistero che circonda coloro a cui incautamente affidiamo la nostra salvezza. E ci dimostra, con i fatti e non con astratte teorie, quanto siano inutili le raccomandazioni e gli avvertimenti premonitori di chi in un modo o nell’altro ci vuole bene (“stai attento”, “prenditi cura di te”) nel momento in cui siamo soggiogati da un’insostenibile e terrena cupio dissolvi.

Ecco perché, se amiamo i libri, non possiamo non dirci riconoscenti a Simenon: i lettori gli devono gratitudine per le ore di piacevole ozio regalate da tante pagine che non ambiscono ad entrare nell’Olimpo o nel Parnaso della Letteratura, ma ci divertono per lo sguardo intelligente sull’umano mondo . Gli scrittori, e soprattutto gli aspiranti tali, mi auguro continuino a vedere in Simenon un grande, grandissimo maestro.