venerdì 6 ottobre 2017

Saluti



Darlington Hall, ottobre 2017

E' con grande soddisfazione ed orgoglio che sono lieto di condividere con voi la notizia, diffusa da poche ore, che Mr. Ishiguro ha vinto, tanto meritatamente quanto inaspettatamente, il premio Nobel per la Letteratura 2017. 

Ora si può davvero dire che il cerchio si è chiuso e che ogni cosa può tornare al suo posto senza ulteriore indugio.

Ho già raccontato di come per la prima volta dopo tanti anni uscii dai protettivi confini di Darlington Hall, approfittando della benevolenza con cui  Mr. Farraday, il nuovo brillante proprietario, mi propose di allontanarmi per qualche tempo dalla dimora dove a lungo avevo servito sua signoria Lord Darlington, per andare alla scoperta del mondo esterno. Come noto, accettai la cortese offerta soltanto dopo aver realizzato che essa sarebbe stata una magnifica occasione per verificare cosa Miss Kenton avesse in mente e se ci fosse una seppur remota possibilità di riaverla in servizio con noi.

Quel viaggio fu un’esperienza  eccezionalmente istruttiva, per certi versi elettrizzante e illuminante, che mi diede nuova ispirazione per perfezionare il servizio che sono onorato di rendere nella casa alla quale dedico tutto il mio impegno e tutte le mie energie.

Ho raccontato queste cose in un primo “post”, circa quattro anni fa, a cui ne sono seguiti numerosi altri. E’ sorprendente come la vanità, la curiosità e altre debolezze umane ci portino invero a scoprire che il mondo è un luogo pieno di bellezza e che anche la sua pallida rappresentazione virtuale, il cosiddetto “web”, può essere incredibilmente interessante se solo si ha l’accortezza di proteggersi dai pochi facinorosi che diffondono miasmi e veleni, finendo solo con il nuocere a sé e agli altri. 
Resto convinto, forse ingenuamente, che la forza della parola prevarrà sempre sulla menzogna, la violenza e l’inganno.

Ora, dopo il prestigioso riconoscimento assegnato allo scrittore che benevolmente mi ha donato forma e vita e al quale sarò eternamente debitore, è tempo di tornare nuovamente a casa.

Auguro a tutti coloro che in questo tempo ho incidentalmente incontrato nel variegato mondo del web un buon proseguimento, felicità e pace.

Con rispetto,

Stevens


lunedì 21 agosto 2017

Giuseppe Berto, Il male oscuro

Di questo romanzo mi ha colpito innanzi tutto lo stile.
E’ un lunghissimo monologo nel quale i periodi, già piuttosto lunghi fino a circa metà del volume, man mano che ci si addentra nella psiche del protagonista-narratore diventano un fluire continuo, aumentano progressivamente di lunghezza e si può arrivare a leggere quasi cinquanta pagine prima di trovare un punto e tirare il fiato.
In qualche modo mi ha ricordato l’ultimo capitolo dell’Ulisse di Joyce, quello con i pensieri di Molly, scritto completamente senza punteggiatura. Niente paura: Berto le virgole le mette, ma ugualmente ci fa fluttuare in una continua corrente di pensieri, parole, ripetizioni, ossessioni, che richiede grande padronanza di scrittura e soprattutto un’intensità di contenuti fuori dal comune.
E infatti la seconda cosa che mi ha molto impressionato è come si possano scrivere trecentocinquanta dense e fittissime pagine guardando continuamente il proprio ombelico, anzi descrivendo centimetro per centimetro il proprio intestino e allo stesso tempo raccontare lo smarrimento di un’intera generazione, di un ambiente sociale, per certi versi persino di una nazione.
“Anche narrando la propria vita uno può narrare la vita umana” dichiarò Berto in un’intervista all’uscita del romanzo, nel 1964.
Giuseppe Berto, classe 1914, era figlio di un carabiniere “nei secoli fedele” al Re, poi divenuto cappellaio nella provincia veneta ma con scarsissima attitudine al commercio, data la natura di uomo tutto d’un pezzo che l’esperienza militare, l’ambiente provinciale, le ristrettezze economiche e i valori imbevuti di retorica patriottica tardo risorgimentale non avevano contribuito ad ammorbidire.
L’inquietudine di Berto, la ribellione al clima soffocante familiare e provinciale (abbondantemente assimilato nei principi e nei valori, dunque la ribellione è un po’ contro una parte di se stesso) lo porta ad arruolarsi in Africa con le camicie nere, a spendere in guerra gli anni migliori, cercando anche la bella morte come estrema forma di gloria e liberazione, per poi tornare sfinito, vinto e disilluso in una società ormai trasformata, estranea e aliena, popolata da uomini nuovi dai quali si sente lontanissimo, ragion per cui coltiva la vocazione, e anche un po’ il gusto, di restare ai margini.
Non a caso, Berto ebbe tra i suoi primi estimatori Indro Montanelli (classe 1909) con il quale condivise alcune esperienze e stati d’animo: dalle frequenti crisi depressive all’Abissinia vissuta con giovanilistico anelito di fuga e avventura, alla ricorrente polemica contro la nuova cultura dominante affermatasi dopo la Liberazione.
I personaggi principali e le figure chiave di questo romanzo non hanno un nome e si riconoscono come “il padre”, “la sorella maggiore”, “la vedova”, “la ragazzetta”, “la moglie”, “il vecchietto”, “il luminare” etc., puri strumenti di descrizione del male oscuro del protagonista e della sua solitudine in una società che sembra disinteressarsi di qualsiasi cosa che non riguardi i consumi, il benessere materiale, il progresso, i nuovi prodotti.
Il male oscuro che lo ha così tanto tormentato, sembra volerci dire Berto, è comune a molti, ma pochi ne hanno parlato direttamente e senza finzione poetica.
Eppure, come recita Eschilo in una delle epigrafi in esergo: “il racconto è dolore, ma anche il silenzio è dolore”. Dunque Berto si racconta e lo fa talmente impudicamente che solo grazie ad un’arguta ed efficacissima ironia riesce a non farci distogliere lo sguardo, anzi a farsi seguire tra ospedali e lettini per terapia psicoanalitica neanche si trattasse della fuga del Corsaro Nero nella foresta di Maracaibo.
La citazione di Eschilo è tratta dal Prometeo: la ribellione verso il proprio microcosmo e le aspirazioni negate. Le altre due epigrafi che aprono il romanzo sono di Freud, imprescindibile, visti i continui (anche divertenti) riferimenti alla psicoanalisi e di Carlo Emilio Gadda (La cognizione del dolore) che insieme a Svevo (La coscienza di Zeno) viene indicato dallo stesso Berto come nume tutelare della sua opera.
Gadda, dal quale Berto trasse ispirazione anche per il titolo del romanzo, gli diede anche la soddisfazione di un pubblico encomio in radio.
E a proposito di soddisfazioni: come deve essere stato vincere il Campiello, a Venezia, lui nato a Mogliano Veneto da un carabiniere nei secoli fedele che gli profetizzava un futuro fatto di galera e fallimenti?

“e così scavo nella mia solitudine e nel mio avvilimento pensando che un giorno gliela farò vedere a tutti questi veneziani chi sono io”.

sabato 22 luglio 2017

I duellanti, di Joseph Conrad

L’insensatezza delle passioni che offusca la vista e fa precipitare verso il baratro. L’inconsapevole pulsione autodistruttiva che inspiegabilmente attrae e soggioga l’anima. La trappola dell’orgoglio, dell’onore, dei codici e delle convenzioni che  impediscono di fermare la corsa verso la catastrofe, anche quando essa è sempre più evidente. La salvezza non è in noi ma negli altri e può arrivare solo se abbiamo la fortuna di guardare oltre e di cogliere lo sguardo d’amore posato su di noi.
“Il generale D’Hubert ebbe il secondo di tempo necessario per ricordare che egli aveva temuto lo spettro della morte non come uomo, ma come amante; non come un pericolo, ma come un rivale; non come un nemico della vita, ma come un ostacolo al suo matrimonio.”
Come in tutte le opere di Conrad, anche questo lungo racconto o romanzo breve (130 pagine) è pervaso dal mal di vivere. Pur mancando l’atmosfera dei mari esotici e delle terre lontane (siamo in Europa durante le guerre napoleoniche), ritroviamo la stessa febbre, la stessa corsa verso l’abisso, la stessa lotta contro lo spirito animale nascosto nelle nostre viscere e che vuole nutrirsi del nostro stesso sangue.
Non ingannino le differenze sociali, perché in modi diversi si tratta di una febbre che colpisce tutti, l’aristocratico, settentrionale e ben educato D’Hubert, come il focoso, “terrone” e plebeo Feraud. Non  conta chi ha provocato e chi non ha saputo resistere alle provocazioni: l’uno ha bisogno dell’altro per sentirsi vivo e per dare un senso a ciò che un senso non ce l’ha.
Semmai il diverso ambiente e le diverse risorse economiche e culturali consentono una diversa gestione di queste pulsioni, conducendo infine a sbocchi diversi.
Leggere Conrad non è mai stato piacevole per me, e questo basta per non annoverarlo tra i miei preferiti, eppure sono attratto dalle sue opere con la stesso insensato gusto per il male che domina i protagonisti delle sue storie.
“I duellanti”, è ispirato ad un articolo pubblicato su un giornale, nel quale si ricordava la vicenda di due ufficiali napoleonici che nel corso di vent’anni si sfidarono a duello svariate volte per futili motivi, che rimasero avvolti nel mistero.

Nel 1977 Ridley Scott ne ha ricavato un film cupo e tenebroso, che tiene lo spettatore incollato alla sedia, interpretato da Harvey Keitel (Feraud) e Keith Carradine (D’Hubert) sostanzialmente fedele al romanzo ma tutto focalizzato sulla virile contrapposizione tra i due personaggi e sul parallelismo con la rapida ascesa e caduta del parvenu di Ajaccio, escludendo gli aspetti che, soprattutto nel finale, rendono l’opera di Conrad un po’ più ricca e poliedrica.

domenica 2 luglio 2017

Sinistra e popolo - Il conflitto politico nell'era dei populismi

In questo suo ultimo saggio, Luca Ricolfi compie un’analisi accurata delle difficoltà della sinistra politica in tutto il mondo e del parallelo insorgere di movimenti “populisti” giungendo alla conclusione che destra e sinistra sono categorie politiche che hanno perso gran parte del loro significato e che il dibattito politico dei prossimi anni sarà piuttosto tra “forze dell’apertura” contrapposte alle “forze della chiusura”, senza che ciò implichi alcun giudizio morale  sulle une o sulle altre.
L’analisi di Ricolfi non punta a dimostrare il distacco tra la sinistra e la base sociale che essa tradizionalmente rappresentava fino a circa metà degli anni 70 del novecento, ma cerca di indagare le ragioni e i fattori che hanno determinato questo fenomeno in tutto il mondo occidentale.

Il ragionamento si sviluppa in tre parti e un epilogo. 
La prima parte è dedicata a confutare lo schema proposto da Norberto Bobbio, una delle figure più care nel pantheon della sinistra italiana, nel famoso e fortunato saggio “Destra e Sinistra” del 1994.  Nell’epoca in cui il distacco con i ceti popolari era già ampiamente avvenuto, quel libricino è all’origine del “cortocircuito logico che ha permesso alla sinistra di non comprendere quello che nel frattempo era diventata, nonché di prolungare il proprio atteggiamento di superiorità morale verso la destra.”

La seconda parte contiene una sintesi della storia economica degli ultimi quarant’anni. Se il periodo tra il ’46 e il ’75 è da considerare l’età dell’oro per la sinistra del mondo occidentale (crescita dei redditi, innalzamento dei livelli di istruzione, incremento generalizzato dei consumi, allargamento del welfare) negli anni successivi per via di ripetuti shock petroliferi, stagflazione e crisi fiscale dello Stato la situazione cambia irreversibilmente. Le trasformazioni sociali (scomparsa del tradizionale mondo popolare, raccontata ad esempio da Pasolini), economiche (fiammata liberista degli anni 80, globalizzazione, recessione prolungata),  politiche (fine della guerra fredda, comparsa di nuovi attori sulla scena internazionale, terrorismo islamico, flussi migratori), e demografiche (invecchiamento Paesi nord-occidentali, flussi migratori) modificano completamente la natura dei partiti di sinistra, che spesso salgono al governo abbagliati e frastornati dal successo del liberismo sfrenato dell’era Thatcher e Reagan,  abbandonano gradualmente la difesa dei ceti più deboli della società, si convertono al mercato e diventano il riferimento dei “ceti medi riflessivi”, colti e urbanizzati  che ormai inseguono solo ideali di progresso “politicamente corretti” come i diritti dei gay, le quote rosa, il linguaggio sessista, la fecondazione assistita, il testamento biologico, l’alimentazione naturale, i diritti degli animali, etc.
 In Italia, ad esempio, l’origine di questa parabola si colloca negli anni della politica del “compromesso storico” promossa da Berlinguer (altro mito della sinistra colpito dalla critica di Ricolfi) che ha determinato l’arrocco a difesa degli strati forti della classe operaia garantiti da sindacati e statuto dei lavoratori, rinunciando ad interessarsi del vasto mondo dei disoccupati, sottoccupati e irregolari, un mondo  senza protezioni su cui si fondava la sopravvivenza dei padroncini, artigiani e commercianti che costituivano la linfa vitale della DC.

Nella terza parte si indagano le origini del moderno populismo, ovvero della reazione dei ceti popolari al “tradimento” della sinistra, divenuta in gran parte “riformista” e ad un mondo che si presenta senza alcun sogno di “sol dell’avvenire”, ma piuttosto con la prospettiva di una lunga notte, di competizione sfrenata, assenza di crescita, insicurezza economica, fisica, sociale. Ricolfi propone un modello matematico nel quale tende a dimostrare che crisi economica, paura del terrorismo e interazione tra queste due variabili siano all’origine della forte domanda di protezione che è alla base di ogni populismo, sia che nasca con matrice di destra (più preoccupazione verso i flussi migratori) che con matrice di sinistra (preoccupazione verso gli interessi del grande capitale e verso le ingerenze economiche degli organismi sovranazionali). Inoltre sostiene che la domanda di protezione dei nuovi ceti popolari (sostanzialmente i perdenti della globalizzazione e gli abitanti delle periferie) si basa su evidenze oggettive e misurabili, di fronte alle quali la sinistra ha finora avuto una atteggiamento “negazionista”. La sinistra stessa d’altro canto si è strutturalmente modificata: mentre quarant’anni fa aveva il problema di aggregare qualche colletto bianco alle tute blu (da qui l’espansione verso il settore pubblico, la scuola, le università),oggi ha il problema opposto di trovare qualche operaio (o disoccupato o precario) che si aggiunga alle proprie fila composte prevalentemente da impiegati, insegnanti e funzionari pubblici. La stessa attenzione che la sinistra dedica agli immigrati e alle politiche di accoglienza, rivelerebbe il disperato bisogno che la sinistra ha di un baluardo contro il naufragio della propria identità. Senza immigrati, la sinistra non avrebbe più alcun segno visibile della propria vocazione ad occuparsi di chi sta in basso nella scala sociale.

La conclusione è che la ribellione dei ceti popolari parte da lontano (secondo alcuni studiosi la crisi della sinistra in America inizia nel secondo dopoguerra; in Italia è negli’80 che nasce il fenomeno degli operai con tessera CGIL che votano Lega Nord) e ai giorni nostri si è trasformata in insofferenza e aperta ostilità verso il “politicamente corretto”, che in alcuni casi è degenerato nel “follemente corretto”. La sinistra di governo viene perciò travolta dalla protesta contro l’establishment e contro l’assenza di senso di realtà che caratterizza le élites benpensanti a cui essa non solo si è totalmente assimilata, ma a cui ha fornito un modello culturale fatto di indulgenza, perdonismo, empatia, calore umano, sostanzialmente un’etica della generosità con cui la cultura “liberal” cerca di mitigare le proprie spinte individualiste.
Invece nell’ampia minoranza di persone che abita nel mondo di sotto e che si preoccupa più della sopravvivenza che dell’autorealizzazione, si fa strada l’idea che “il fondamento di ogni identità e di ogni diritto non è il singolo individuo, ma è la comunità cui il singolo appartiene alla nascita… E’ alla comunità che spetta difendere e preservare i propri costumi, la propria lingua, i propri modi di vita; è la comunità che ha il dovere di tutelare e promuovere il benessere dei suoi membri; è la comunità l’unica titolare del diritto di escludere o includere chi voglia entrarvi dall’esterno”.
Il dibattito futuro dunque sarà tra forze dell’apertura e forze della chiusura. In ognuno dei due schieramenti  ci sarà ancora, come pallido ricordo della sinistra e destra novecentesche, una distinzione tra chi è maggiormente propenso ad aprire ai capitali e chiudere alle persone o viceversa, ma il dibattito prevalente sarà tra l’insieme di forze (che siano di origine liberale o della sinistra riformista) interessate a cogliere le opportunità derivanti da una sempre maggiore apertura e interconnessione in tutti i campi, contrapposte alle forze (che siano eredi dei conservatori o della sinistra antagonista) prevalentemente concentrate sui rischi e sulla domanda di protezione che sale da chi è escluso da quelle opportunità.
Ricolfi, par di capire, propende per una saggia terza via: tra chi vorrebbe gettare ponti e chi pensa ad innalzare muri, sembra che apprezzi chi preferisce costruire porte. Perché le porte si possono aprire o chiudere, a seconda del momento e delle necessità.

Riferimenti/Percorsi di lettura

Ci sono molti temi e dunque molti libri che si possono intrecciare con questo saggio.  Innanzi tutto “Destra e sinistra” di Norberto Bobbio (utile una rilettura dopo oltre 20 anni). Poi qualche libro sul populismo dei giorni nostri (ad esempio, “Populismo 2.O” di Marco Revelli, sociologo che tra l’altro è ispiratore di diversi punti di “Destra e sinistra” di Bobbio). Ricolfi si sofferma per diverse pagine anche in un confronto tra il declino della civiltà liberale ottocentesca descritta da Ortega y Gasset (“La ribellione delle masse”, 1929) e l’attuale periodo storico nel quale gli esclusi dalla globalizzazione cercano di far sentire la loro voce e di sovvertire l’ordine imposto nel “mondo di sopra”. Personalmente trovo che alcuni spunti di riflessione interessanti su questi temi provengano anche dal premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, che da decenni è uno dei massimi studiosi della diseguaglianza e teorico dei benefici che le politiche redistributive possono dare anche alla crescita economica. Comunque il saggio di Ricolfi ha una ricchissima bibliografia e una fitta sezione note che vi consente di collegare queste pagine ai percorsi che più preferite. C’è poi una appendice statistica, per entrare nel merito del modello matematico proposto e con la componente quantitativa dell’analisi. Chicca finale: un’appendice “politicamente scorretta” sul Manifesto di Ventotene che vi farà venire voglia di andare a leggere direttamente il celebre scritto di Spinelli, Rossi e Colorni invece di fidarvi delle citazioni, anche di altissimo livello, che lo riguardano.

domenica 25 giugno 2017

La provvidenza rossa



Viaggio molto interessante nel Partito Comunista Italiano nel periodo della sua massima forza elettorale e della sua capacità di influenza nella società italiana.

Un “mistery”, una storia a cui partecipano personaggi fittizi e reali e che incrocia fatti realmente accaduti a vicende totalmente inventate.

Lodovico Festa, ex dirigente del PCI milanese e successivamente co-fondatore de “il Foglio”, ci mostra dall’interno il funzionamento di un sistema che, molto prima di trasformarsi in una “giocosa macchina da guerra” e perciò affondare e disperdersi mestamente in tanti rivoli, fu un caso impressionante di stato nello Stato, una struttura di potere efficientissima e capillarmente ramificata, proiettata verso obiettivi politici forti, e in grado di interloquire alla pari e riservatamente con altre strutture di potere del nostro Paese come la Chiesa Cattolica, le forze dell’ordine, i giornali, e di condizionare interi settori della società civile come la scuola, le università, la cultura.

Con il pretesto di narrare l’indagine parallela (della polizia e del partito) sull’omicidio di una militante alla fine del 1977 (pochi mesi prima che con il caso Moro in Italia cambiassero molte cose) l’autore ci accompagna nel suo vecchio mondo, permettendoci di osservare in presa diretta ciò che finora potevamo soltanto immaginare. Vengono mostrate, tra le altre cose, la complessità e l’ambiguità, l’idealismo e la doppiezza, la potenza e i germi del successivo decadimento, la disciplina e la passione, il culto per l’efficienza e la riservatezza, la precisione e il tatticismo e soprattutto la fitta rete di relazioni, che permetteva di dialogare senza chiasso con tutti e su tutto. Una grande storia indubbiamente, che merita rispetto e che suscita inquietudine.

Avesse scritto un saggio, sarebbe stata probabilmente una mattonata che ti dovevi fermare a metà del titolo. Invece Festa ci porta dentro le cose, e ce le fa vivere attraverso i funzionari, i sindacalisti, gli intellettuali, i giornalisti, gli imprenditori, le cooperative, gli ex-partigiani, gli infiltrati, i faccendieri, le spie, i pensionati, i circoli Arci, i semplici militanti. Si concede anche qualche consapevole anacronismo perché, come spiega nella nota finale, è “interessato a ricordare più le atmosfere, gli ambienti, le sequenze, le connessioni psicologiche (forse non inverosimili) che la precisa scansione degli avvenimenti”.

In questo modo riesci a digerire le oltre cinquecento pagine del romanzo (forse con qualche ripetitività di troppo verso la fine) impari parecchio e ti diverti pure.
Consigliato a chi è interessato alla storia italiana tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni 70 del secolo scorso e in particolare a chi vuole concedersi una visita nella sala macchine, o nella cucina, ormai diventati pezzi da museo, di un vecchio, glorioso, controverso e potente partito.

mercoledì 26 aprile 2017

Torto marcio



“Torto marcio” di Alessandro Robecchi è un giallo ambientato a Milano, dove nella primavera 2017 avvengono degli strani omicidi nei quali sopra il corpo della vittima viene misteriosamente deposto un sasso. Massoneria? Islamisti? Terroristi? E le vittime? Cos’hanno in comune, quali vite hanno vissuto, quali sono stati i loro affetti, affanni, affari e segreti?

La verità ha molte facce, maschere, sembianze, travestimenti. C’è la famelica verità giornalistica, degli opinionisti e degli editorialisti per cui ogni fatto è la conferma di una teoria, il pretesto per la sferzata quotidiana a qualche comodo bersaglio, l’occasione per frenare l’emorragia di vendite e di lettori. C’è la perfida verità del gossip, della maldicenza e dell’osceno commercio di sentimenti di cui pullula lo show business. C’è l’ambigua verità dell’ideologia, che spesso riempie le menti più deboli fino a confonderle e, per mezzo di ingannevoli certezze, trasfigura falsamente anche le azioni più abiette.  C’è l’ingarbugliata verità giudiziaria, dei verbali di polizia e delle sentenze: una matassa di fili di cui si perde quasi sempre il capo, o la coda, o un tratto più o meno lungo, dunque una verità sempre incompleta, sbiadita e innaturale. C’è la rassegnata verità degli ultimi, di quelli hanno che sempre saputo che gli ultimi resteranno sempre ultimi e non si lasciano fagocitare da nient’altro che da questa unica amara verità. E infine ci sono i fatti, nudi e crudi, senza additivi, ricette, commenti e spiegazioni.

Con “Torto marcio” Alessandro Robecchi scrive una storia facendo un inevitabile uso di cliché da romanzo poliziesco, con l’aggiunta di un evitabile (ma per la verità più contenuto) uso di cliché sociologici e la popola dei suoi personaggi ricorrenti: l’autore televisivo Monterossi, il sovrintendente di polizia Carella, il vice sovrintendente Ghezzi. Ci offre anche una topografia di Milano spaccata a metà, tra i vincenti, che hanno avuto tutto, e gli ultimi, che hanno perso tutto, o non hanno mai avuto niente, né mai l’avranno. Salvo poi scoprire che gli estremi si toccano, per certi tratti si confondono, prima di dividersi tra chi è destinato a “due lire bastarde e spavento” e chi invece potrà permettersi i migliori studi, un buon matrimonio, una bella casa in centro, soldi, fama, potere.

Mi sono molto piaciuti quasi tutti i personaggi della storia, soprattutto quelli dei ceti più popolari, che danno immediatezza e spontaneità alla narrazione. Mi ha colpito la bizzarria di alcuni, tipo il ladro imbranato che però sa riconoscere al volo le opere di Balla e Depero. La signora Ghezzi mi ricorda, non so perché, la signora Maigret.  Monterossi  e Ghezzi ci propongono infine l’elogio dall’alternativo: ci raccontano tutta la bellezza, la difficoltà e l’amarezza della condizione di chi vorrebbe tanto essere normale, ma nell’acqua in cui è costretto a nuotare gli tocca andare sempre controcorrente. Pesci fuor d’acqua e fuori dal tempo, che anche quando fanno centro e ottengono una vittoria, scoprono che ha un sapore ancora più aspro e amaro della sconfitta.

Il romanzo si chiude significativamente sulle note di Bob Dylan:

Most of the time/I'm halfway content/Most of the time/I know exactly where it all went/I don't cheat on myself/I don't run and hide/Hide from the feelings/That are buried inside/I don't compromise/And I don't pretend/I don't even care/If I ever see her again/Most of the time

domenica 23 aprile 2017

Il mio Tempo di Libri



Ieri, sabato 22 aprile, ho trascorso un’interessantissima giornata fitta di incontri a Tempo di Libri, la nuova fiera del libro che si svolge nel quartiere di Fiera Milano, a Rho. 
La mattinata parte subito frizzante: il primo incontro è con Marco Malvaldi e Chiara Valerio (che è anche direttrice della manifestazione) sul tema “Matematica e libertà”. 

Marco Malvaldi e Chiara Valerio

Un’ora volata via troppo in fretta, avrei voluto ascoltare ancora la torrenziale e autoironica autrice della “Storia umana della matematica” in compagnia dell’ex ricercatore pisano che ha preferito il BarLume all’Università. Tra citazione di teoremi, aneddoti e divulgazione impepata dalla verve dei due scrittori, non si è proprio corso il rischio di annoiarsi. Portandosi a casa anche un po’ di spunti da ricordare. Ne voglio citare almeno uno, sulla manipolazione dei dati apparentemente scientifici. Stati Uniti d’America, caso O.J. Simpson, accusato di aver ucciso la moglie. Emerge che lui era solito picchiarla. L’avvocato difensore impressiona la giuria citando questa statistica: quando un marito picchia la moglie, soltanto in un caso su 2.500 poi la uccide. Il dato è giusto, ma la statistica è presentata in modo sbagliato, perché omette una condizione fondamentale. La statistica corretta è questa: in caso di morte violenta della moglie, se si scopre che il marito la picchiava, nel 98% dei casi lui è anche responsabile della sua morte. Da allora negli USA la statistica forense deve obbligatoriamente sottoporsi a test di correttezza scientifica.
Andrea Vitali


Alle 11.30 c’è giusto il tempo di affacciarsi da Andrea Vitali, che legge pagine che ci trasportano sulle acque del lago di Como, prima di seguire la presentazione del nuovo romanzo di Carlo Lucarelli, “Intrigo italiano”, un giallo ambientato negli anni ’50 del secolo scorso.



Lucarelli parla dell’analogia tra il giallo e tante vicende della storia e cronaca italiana. Azzarda anche un ardito parallelismo tra il mestiere di giallista e il mestiere di storico: entrambi devono scavare, investigare, ricostruire e naturalmente documentarsi. Per lo scrittore, specie se di romanzi gialli, la cura dei dettagli, la credibilità del contesto è fondamentale. 

Carlo Lucarelli
La polizia italiana ha istituito il “Premio Fedeli” per giudicare la verosimiglianza dell’ambientazione dei nostri gialli. E le storie ambientate in anni che l’autore non ha vissuto in prima persona pongono evidentemente ancora più difficoltà. Compiendo ogni gesto quotidiano, occorre immaginare come lo avrebbero fatto a quei tempi. Sapevate ad esempio che le strisce pedonali sono state introdotte in Italia soltanto con il codice della strada del 1959? Per questo nei film girati in epoca precedente tutti corrono quando attraversano la strada. Poi ci sono i dettagli, pur giusti, che non corrispondono al senso comune dei lettori, che li avvertono come sbagliati. Ad esempio, tutti ricordiamo che durante il fascismo era in voga l’uso del “voi” invece che del “lei”. Eppure il cambio del pronome di cortesia avvenne soltanto nell’ultima parte del periodo fascista, mentre per buona parte del ventennio ci si dava normalmente del “lei”. In questi casi, lo scrittore adotta alcuni escamotage per far capire al lettore che non si tratta di una svista, ma di un dettaglio corretto, anche se apparentemente incongruo.

Alle 12.30 scelgo il dibattito tra Piercamillo Davigo e Giuliano Pisapia, sullo spunto del saggio scritto dall’attuale presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Il sistema della corruzione”. Le posizioni di entrambi sono note, ma dopo un’ora di dialogo serrato gli appunti sono fittissimi ed è difficile fare una sintesi. 
Pier Camillo Davigo e Giuliano Pisapia


Preferisco riportare un paio di osservazioni su cui mi sono trovato particolarmente in sintonia. Pisapia ha giustamente rilevato come le statistiche che evidenziano che l’Italia, in quanto a livello di corruzione, raggiunge posizioni preoccupanti in compagnia di Paesi del Terzo e Quarto Mondo, non tengano conto della micro corruzione, capillare e diffusissima che esiste in quei Paesi: se fosse rilevata, l’Italia non sarebbe così in fondo alla classifica. Davigo invece ha criticato la troppo ampia discrezionalità concessa al giudice nel decidere la pena (il furto d’auto può essere sanzionabile da un minimo di 17 giorni a un massimo di 30 anni) sostenendo che il problema non è di alzare i massimi, bensì i minimi. Si è poi esibito in un’efficace boutade, citando inavvertitamente “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, quando ha calcolato che, che tra il cumulo di attenuanti, rito abbreviato ed altri benefici, l’uxoricidio potrebbe risultare più conveniente rispetto ad una causa di separazione.

E in merito alla corruzione, oltre ad evidenziare alcune incongruenze tecniche nella legislazione e negli strumenti a disposizione della magistratura, ha sottolineato molto l’aspetto culturale che caratterizza il nostro Paese. Ci sono comportamenti che dovrebbero essere sanzionati socialmente anche se non sono reati: in molti Paesi ciò avviene normalmente, ma in Italia “si aspettano le sentenze”. Soprattutto, gli onesti hanno il torto di non prendere sufficientemente le distanze dai disonesti.

Alla fine ho acquistato il libro di Davigo, non perché mi riconosca interamente nelle sue tesi (come minimo ne so troppo poco) ma perché ogni proposta intelligente mi sembra utile a farsi un’idea migliore sul tema.

Dopo il dibattito sulla giustizia, la pausa pranzo prosegue “leggera” con il dibattito sulla burocrazia: ore 13.30, è il turno di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, che hanno scritto “I signori del tempo perso” e rispondono alle domande di Ferruccio De Bortoli

Francesco Giavazzi, Giorgio Barbieri e Ferruccio De Bortoli
Andiamo direttamente alle proposte: in attesa di leggere il libro, sembra che la proposta sia fondamentalmente una: rotazione dei dirigenti, non permettere che ci siano posizioni che si trasformino in una sorta di mandarinato. E creare l’obbligo di trasferirsi al settore privato dopo un certo numero di anni, in modo che la necessità di farsi assumere diventi incentivo alla qualità del lavoro. Spesso nella successione dei Governi non si avverte cambiamento perché la macchina dell’esecutivo rimane nelle mani dei più alti funzionari. Nessuno dei Governi italiani degli ultimi anni (con l’eccezione di Ciampi nel 1993) è mai riuscito a sostituire i massimi funzionari ministeriali. La riforma della Pubblica Amministrazione tentata dal ministro Madia, pur contenendo violazioni a ben sei articoli della Costituzione, prevedeva la rotazione dei dirigenti. Anche Boeri all’INPS sta facendo azioni in questo senso. Non a caso le reazioni sono molto forti.

Anche in questo caso, acquisto il libro per cercare di capire meglio. E una domanda mi ronza in testa: ok la rotazione, ma in questo modo non si creano i presupposti per uno “spoil system” senza freni? Una rilettura del capitolo introduttivo della “Lettera Scarlatta”, nel quale Hawthorne parla della sua esperienza di funzionario alla Dogana, può essere un utile accompagnamento al saggio di Giavazzi-Barbieri.



Alle 15.30, altra tappa della mia maratona fieristica (prevalentemente dedicata ai saggi) con Luca Ricolfi, Marco Damilano e Guliano Pisapia. Si presenta l’ultimo libro di Ricolfi: “Sinistra e popolo”. 
Luca Ricolfi, marco Damilano, Giuliano Pisapia


Damilano esordisce perfido con l’annuncio che con questo libro si demolisce niente meno che il Bobbio di “Destra e Sinistra” , cosa che inizialmente non mi scalfisce (figurarsi, ci vuol altro!) ma poi piano piano affiora e si impone l’imperativo di disseppellire quel libricino fitto di annotazioni, dovunque esso sia, e di metterlo a confronto con l’impertinente Ricolfi, che come sempre esprime concetti anche molto forti, ma sostenuti da un grosso lavoro di ricerca e di analisi.

Il sociologo torinese chiarisce subito che il suo intento non è di dimostrare il distacco tra la sinistra e i ceti popolari, che è un fatto piuttosto evidente, ma di cercare di capire quando esso sia iniziato e perché. E si parte da lontano: Ricolfi sostiene che la lunga marcia che ha reso la sinistra sempre più impiegatizia (anzi pubblico-impiegatizia) e sempre meno operaia, iniziò nel mitico PCI di Berlinguer.

E con questo salgono a tre i volumi che metto in borsa con l’intento non tanto di condividere, quanto di capire, confrontare, distinguere.

16.30: non si propongono libri, ma si ragiona sull’affidabilità di ciò che si legge (“fake news” è l’espressione ormai entrata nel lessico quotidiano) nell’incontro con Corrado Sinigaglia (professore di filosofia della scienza) e Giovanni Ziccardi (professore di informatica giuridica) moderato da Piero Attanasio dell’Associazione Italiana Editori. 
Corrado Sinisgaglia, Piero Attanasio e Giovanni Ziccardi

Il titolo del dibattito è: “I libri nel mondo della post verità”. Sinigaglia precisa opportunamente che la tendenza alla dequalificazione delle pubblicazioni, anche in campo scientifico,  è iniziata ben prima dell’era Internet 2.0 (la seconda fase di internet, quella caratterizzata dai social network che concedono a chiunque la possibilità di raggiungere una grande potenza mediatica). Inoltre le “fake news” sono spesso estrapolazioni di fatti localmente veri, ma del tutto decontestualizzati. Contrastarle è spesso una fatica vana, in quanto il “fake” fa sempre più audience della noiosa e faticosa verità. Ziccardi aggiunge che si creano meccanismi perversi basati sul consenso, nei quali la fake news è la moneta di scambio per la crescita di popolarità. In questo l’editoria può avere un ruolo fondamentale. Gli studiosi che dedicano anni di studio prima di pubblicare un libro, che magari da decenni sono concentrati su un’unica area di approfondimento, hanno bisogno di canali in cui la loro comunicazione “fuori dal tempo” possa essere veicolata. 

D’altronde, è la mia riflessione personale, le fake news sembrano ormai strangolare l’enorme libertà di espressione che si era creata nei primi tempi dell’era dei social network. Man mano che le voci sulla piazza virtuale sono aumentate, soltanto chi grida più forte riesce a farsi sentire. E non sempre chi grida più forte dice le cose più sensate. E sui pericoli di un eccessivo “controllo” dell’informazione, mi viene da pensare alla vecchia distinzione tra i fatti e le opinioni: dovremmo fare in modo di dividerci sulle opinioni, evitando di parlare a vanvera sui fatti.

Domenico Quirico e Sergio Ramazzotti
Concludo la mia visita a Tempo di Libri con l’incontro con il giornalista Domenico Quirico e il fotoreporter Sergio Ramazzotti sul tema: “E’ ancora possibile fare del buon giornalismo?”, sottotitolo del libro di Quirico “Il tuffo nel pozzo”. 

E’ l’incontro più carico di pathos di tutta la giornata. Quirico, inviato in zone di guerra, sequestrato in Siria per cinque mesi, è un reporter che interpreta la sua professione come una missione totalizzante, dove non sono possibili mediazioni o compromessi. Per lui esiste un solo modo di fare giornalismo: raccontare ciò che si vede e soltanto ciò che si vede. I giornali si ridurrebbero a cinque pagine scarse, ma sarebbero infinitamente più interessanti.

Sergio Ramazzotti presenta una storia in immagini, che si svolge nell’arco di 72 ore, da guardare in silenzio, per scoprire alla fine che si tratta di un viaggio per andare a morire in una “clinica” svizzera che pratica l’eutanasia, o per meglio dire, il suicidio assistito. Una storia che tocca l’anima (questo dovrebbe fare per Quirico il buon giornalista: toccare l’anima) e ci fa vedere con i nostri occhi queste famigerate “cliniche”, in realtà bilocali con angolo cottura. Essere sul posto, raccontare in presa diretta, è tutto ciò che di nobile esiste nella professione del giornalista.  E del fotoreporter.


Dulcis in fundo, i mei acquisti: oltre ai libri presentati durante l’incontro, ho approfittato dell’occasione per aggiungere sullo scaffale due romanzi che si preannunciano come due gioiellini della letteratura: I duellanti di Conrad e Il colpo di grazia di Marguerite Yourcenar. Inoltre un saggio economico di Stiglitz: La grande frattura – La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla.