mercoledì 26 aprile 2017

Torto marcio



“Torto marcio” di Alessandro Robecchi è un giallo ambientato a Milano, dove nella primavera 2017 avvengono degli strani omicidi nei quali sopra il corpo della vittima viene misteriosamente deposto un sasso. Massoneria? Islamisti? Terroristi? E le vittime? Cos’hanno in comune, quali vite hanno vissuto, quali sono stati i loro affetti, affanni, affari e segreti?

La verità ha molte facce, maschere, sembianze, travestimenti. C’è la famelica verità giornalistica, degli opinionisti e degli editorialisti per cui ogni fatto è la conferma di una teoria, il pretesto per la sferzata quotidiana a qualche comodo bersaglio, l’occasione per frenare l’emorragia di vendite e di lettori. C’è la perfida verità del gossip, della maldicenza e dell’osceno commercio di sentimenti di cui pullula lo show business. C’è l’ambigua verità dell’ideologia, che spesso riempie le menti più deboli fino a confonderle e, per mezzo di ingannevoli certezze, trasfigura falsamente anche le azioni più abiette.  C’è l’ingarbugliata verità giudiziaria, dei verbali di polizia e delle sentenze: una matassa di fili di cui si perde quasi sempre il capo, o la coda, o un tratto più o meno lungo, dunque una verità sempre incompleta, sbiadita e innaturale. C’è la rassegnata verità degli ultimi, di quelli hanno che sempre saputo che gli ultimi resteranno sempre ultimi e non si lasciano fagocitare da nient’altro che da questa unica amara verità. E infine ci sono i fatti, nudi e crudi, senza additivi, ricette, commenti e spiegazioni.

Con “Torto marcio” Alessandro Robecchi scrive una storia facendo un inevitabile uso di cliché da romanzo poliziesco, con l’aggiunta di un evitabile (ma per la verità più contenuto) uso di cliché sociologici e la popola dei suoi personaggi ricorrenti: l’autore televisivo Monterossi, il sovrintendente di polizia Carella, il vice sovrintendente Ghezzi. Ci offre anche una topografia di Milano spaccata a metà, tra i vincenti, che hanno avuto tutto, e gli ultimi, che hanno perso tutto, o non hanno mai avuto niente, né mai l’avranno. Salvo poi scoprire che gli estremi si toccano, per certi tratti si confondono, prima di dividersi tra chi è destinato a “due lire bastarde e spavento” e chi invece potrà permettersi i migliori studi, un buon matrimonio, una bella casa in centro, soldi, fama, potere.

Mi sono molto piaciuti quasi tutti i personaggi della storia, soprattutto quelli dei ceti più popolari, che danno immediatezza e spontaneità alla narrazione. Mi ha colpito la bizzarria di alcuni, tipo il ladro imbranato che però sa riconoscere al volo le opere di Balla e Depero. La signora Ghezzi mi ricorda, non so perché, la signora Maigret.  Monterossi  e Ghezzi ci propongono infine l’elogio dall’alternativo: ci raccontano tutta la bellezza, la difficoltà e l’amarezza della condizione di chi vorrebbe tanto essere normale, ma nell’acqua in cui è costretto a nuotare gli tocca andare sempre controcorrente. Pesci fuor d’acqua e fuori dal tempo, che anche quando fanno centro e ottengono una vittoria, scoprono che ha un sapore ancora più aspro e amaro della sconfitta.

Il romanzo si chiude significativamente sulle note di Bob Dylan:

Most of the time/I'm halfway content/Most of the time/I know exactly where it all went/I don't cheat on myself/I don't run and hide/Hide from the feelings/That are buried inside/I don't compromise/And I don't pretend/I don't even care/If I ever see her again/Most of the time

domenica 23 aprile 2017

Il mio Tempo di Libri



Ieri, sabato 22 aprile, ho trascorso un’interessantissima giornata fitta di incontri a Tempo di Libri, la nuova fiera del libro che si svolge nel quartiere di Fiera Milano, a Rho. 
La mattinata parte subito frizzante: il primo incontro è con Marco Malvaldi e Chiara Valerio (che è anche direttrice della manifestazione) sul tema “Matematica e libertà”. 

Marco Malvaldi e Chiara Valerio

Un’ora volata via troppo in fretta, avrei voluto ascoltare ancora la torrenziale e autoironica autrice della “Storia umana della matematica” in compagnia dell’ex ricercatore pisano che ha preferito il BarLume all’Università. Tra citazione di teoremi, aneddoti e divulgazione impepata dalla verve dei due scrittori, non si è proprio corso il rischio di annoiarsi. Portandosi a casa anche un po’ di spunti da ricordare. Ne voglio citare almeno uno, sulla manipolazione dei dati apparentemente scientifici. Stati Uniti d’America, caso O.J. Simpson, accusato di aver ucciso la moglie. Emerge che lui era solito picchiarla. L’avvocato difensore impressiona la giuria citando questa statistica: quando un marito picchia la moglie, soltanto in un caso su 2.500 poi la uccide. Il dato è giusto, ma la statistica è presentata in modo sbagliato, perché omette una condizione fondamentale. La statistica corretta è questa: in caso di morte violenta della moglie, se si scopre che il marito la picchiava, nel 98% dei casi lui è anche responsabile della sua morte. Da allora negli USA la statistica forense deve obbligatoriamente sottoporsi a test di correttezza scientifica.
Andrea Vitali


Alle 11.30 c’è giusto il tempo di affacciarsi da Andrea Vitali, che legge pagine che ci trasportano sulle acque del lago di Como, prima di seguire la presentazione del nuovo romanzo di Carlo Lucarelli, “Intrigo italiano”, un giallo ambientato negli anni ’50 del secolo scorso.



Lucarelli parla dell’analogia tra il giallo e tante vicende della storia e cronaca italiana. Azzarda anche un ardito parallelismo tra il mestiere di giallista e il mestiere di storico: entrambi devono scavare, investigare, ricostruire e naturalmente documentarsi. Per lo scrittore, specie se di romanzi gialli, la cura dei dettagli, la credibilità del contesto è fondamentale. 

Carlo Lucarelli
La polizia italiana ha istituito il “Premio Fedeli” per giudicare la verosimiglianza dell’ambientazione dei nostri gialli. E le storie ambientate in anni che l’autore non ha vissuto in prima persona pongono evidentemente ancora più difficoltà. Compiendo ogni gesto quotidiano, occorre immaginare come lo avrebbero fatto a quei tempi. Sapevate ad esempio che le strisce pedonali sono state introdotte in Italia soltanto con il codice della strada del 1959? Per questo nei film girati in epoca precedente tutti corrono quando attraversano la strada. Poi ci sono i dettagli, pur giusti, che non corrispondono al senso comune dei lettori, che li avvertono come sbagliati. Ad esempio, tutti ricordiamo che durante il fascismo era in voga l’uso del “voi” invece che del “lei”. Eppure il cambio del pronome di cortesia avvenne soltanto nell’ultima parte del periodo fascista, mentre per buona parte del ventennio ci si dava normalmente del “lei”. In questi casi, lo scrittore adotta alcuni escamotage per far capire al lettore che non si tratta di una svista, ma di un dettaglio corretto, anche se apparentemente incongruo.

Alle 12.30 scelgo il dibattito tra Piercamillo Davigo e Giuliano Pisapia, sullo spunto del saggio scritto dall’attuale presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Il sistema della corruzione”. Le posizioni di entrambi sono note, ma dopo un’ora di dialogo serrato gli appunti sono fittissimi ed è difficile fare una sintesi. 
Pier Camillo Davigo e Giuliano Pisapia


Preferisco riportare un paio di osservazioni su cui mi sono trovato particolarmente in sintonia. Pisapia ha giustamente rilevato come le statistiche che evidenziano che l’Italia, in quanto a livello di corruzione, raggiunge posizioni preoccupanti in compagnia di Paesi del Terzo e Quarto Mondo, non tengano conto della micro corruzione, capillare e diffusissima che esiste in quei Paesi: se fosse rilevata, l’Italia non sarebbe così in fondo alla classifica. Davigo invece ha criticato la troppo ampia discrezionalità concessa al giudice nel decidere la pena (il furto d’auto può essere sanzionabile da un minimo di 17 giorni a un massimo di 30 anni) sostenendo che il problema non è di alzare i massimi, bensì i minimi. Si è poi esibito in un’efficace boutade, citando inavvertitamente “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi, quando ha calcolato che, che tra il cumulo di attenuanti, rito abbreviato ed altri benefici, l’uxoricidio potrebbe risultare più conveniente rispetto ad una causa di separazione.

E in merito alla corruzione, oltre ad evidenziare alcune incongruenze tecniche nella legislazione e negli strumenti a disposizione della magistratura, ha sottolineato molto l’aspetto culturale che caratterizza il nostro Paese. Ci sono comportamenti che dovrebbero essere sanzionati socialmente anche se non sono reati: in molti Paesi ciò avviene normalmente, ma in Italia “si aspettano le sentenze”. Soprattutto, gli onesti hanno il torto di non prendere sufficientemente le distanze dai disonesti.

Alla fine ho acquistato il libro di Davigo, non perché mi riconosca interamente nelle sue tesi (come minimo ne so troppo poco) ma perché ogni proposta intelligente mi sembra utile a farsi un’idea migliore sul tema.

Dopo il dibattito sulla giustizia, la pausa pranzo prosegue “leggera” con il dibattito sulla burocrazia: ore 13.30, è il turno di Francesco Giavazzi e Giorgio Barbieri, che hanno scritto “I signori del tempo perso” e rispondono alle domande di Ferruccio De Bortoli

Francesco Giavazzi, Giorgio Barbieri e Ferruccio De Bortoli
Andiamo direttamente alle proposte: in attesa di leggere il libro, sembra che la proposta sia fondamentalmente una: rotazione dei dirigenti, non permettere che ci siano posizioni che si trasformino in una sorta di mandarinato. E creare l’obbligo di trasferirsi al settore privato dopo un certo numero di anni, in modo che la necessità di farsi assumere diventi incentivo alla qualità del lavoro. Spesso nella successione dei Governi non si avverte cambiamento perché la macchina dell’esecutivo rimane nelle mani dei più alti funzionari. Nessuno dei Governi italiani degli ultimi anni (con l’eccezione di Ciampi nel 1993) è mai riuscito a sostituire i massimi funzionari ministeriali. La riforma della Pubblica Amministrazione tentata dal ministro Madia, pur contenendo violazioni a ben sei articoli della Costituzione, prevedeva la rotazione dei dirigenti. Anche Boeri all’INPS sta facendo azioni in questo senso. Non a caso le reazioni sono molto forti.

Anche in questo caso, acquisto il libro per cercare di capire meglio. E una domanda mi ronza in testa: ok la rotazione, ma in questo modo non si creano i presupposti per uno “spoil system” senza freni? Una rilettura del capitolo introduttivo della “Lettera Scarlatta”, nel quale Hawthorne parla della sua esperienza di funzionario alla Dogana, può essere un utile accompagnamento al saggio di Giavazzi-Barbieri.



Alle 15.30, altra tappa della mia maratona fieristica (prevalentemente dedicata ai saggi) con Luca Ricolfi, Marco Damilano e Guliano Pisapia. Si presenta l’ultimo libro di Ricolfi: “Sinistra e popolo”. 
Luca Ricolfi, marco Damilano, Giuliano Pisapia


Damilano esordisce perfido con l’annuncio che con questo libro si demolisce niente meno che il Bobbio di “Destra e Sinistra” , cosa che inizialmente non mi scalfisce (figurarsi, ci vuol altro!) ma poi piano piano affiora e si impone l’imperativo di disseppellire quel libricino fitto di annotazioni, dovunque esso sia, e di metterlo a confronto con l’impertinente Ricolfi, che come sempre esprime concetti anche molto forti, ma sostenuti da un grosso lavoro di ricerca e di analisi.

Il sociologo torinese chiarisce subito che il suo intento non è di dimostrare il distacco tra la sinistra e i ceti popolari, che è un fatto piuttosto evidente, ma di cercare di capire quando esso sia iniziato e perché. E si parte da lontano: Ricolfi sostiene che la lunga marcia che ha reso la sinistra sempre più impiegatizia (anzi pubblico-impiegatizia) e sempre meno operaia, iniziò nel mitico PCI di Berlinguer.

E con questo salgono a tre i volumi che metto in borsa con l’intento non tanto di condividere, quanto di capire, confrontare, distinguere.

16.30: non si propongono libri, ma si ragiona sull’affidabilità di ciò che si legge (“fake news” è l’espressione ormai entrata nel lessico quotidiano) nell’incontro con Corrado Sinigaglia (professore di filosofia della scienza) e Giovanni Ziccardi (professore di informatica giuridica) moderato da Piero Attanasio dell’Associazione Italiana Editori. 
Corrado Sinisgaglia, Piero Attanasio e Giovanni Ziccardi

Il titolo del dibattito è: “I libri nel mondo della post verità”. Sinigaglia precisa opportunamente che la tendenza alla dequalificazione delle pubblicazioni, anche in campo scientifico,  è iniziata ben prima dell’era Internet 2.0 (la seconda fase di internet, quella caratterizzata dai social network che concedono a chiunque la possibilità di raggiungere una grande potenza mediatica). Inoltre le “fake news” sono spesso estrapolazioni di fatti localmente veri, ma del tutto decontestualizzati. Contrastarle è spesso una fatica vana, in quanto il “fake” fa sempre più audience della noiosa e faticosa verità. Ziccardi aggiunge che si creano meccanismi perversi basati sul consenso, nei quali la fake news è la moneta di scambio per la crescita di popolarità. In questo l’editoria può avere un ruolo fondamentale. Gli studiosi che dedicano anni di studio prima di pubblicare un libro, che magari da decenni sono concentrati su un’unica area di approfondimento, hanno bisogno di canali in cui la loro comunicazione “fuori dal tempo” possa essere veicolata. 

D’altronde, è la mia riflessione personale, le fake news sembrano ormai strangolare l’enorme libertà di espressione che si era creata nei primi tempi dell’era dei social network. Man mano che le voci sulla piazza virtuale sono aumentate, soltanto chi grida più forte riesce a farsi sentire. E non sempre chi grida più forte dice le cose più sensate. E sui pericoli di un eccessivo “controllo” dell’informazione, mi viene da pensare alla vecchia distinzione tra i fatti e le opinioni: dovremmo fare in modo di dividerci sulle opinioni, evitando di parlare a vanvera sui fatti.

Domenico Quirico e Sergio Ramazzotti
Concludo la mia visita a Tempo di Libri con l’incontro con il giornalista Domenico Quirico e il fotoreporter Sergio Ramazzotti sul tema: “E’ ancora possibile fare del buon giornalismo?”, sottotitolo del libro di Quirico “Il tuffo nel pozzo”. 

E’ l’incontro più carico di pathos di tutta la giornata. Quirico, inviato in zone di guerra, sequestrato in Siria per cinque mesi, è un reporter che interpreta la sua professione come una missione totalizzante, dove non sono possibili mediazioni o compromessi. Per lui esiste un solo modo di fare giornalismo: raccontare ciò che si vede e soltanto ciò che si vede. I giornali si ridurrebbero a cinque pagine scarse, ma sarebbero infinitamente più interessanti.

Sergio Ramazzotti presenta una storia in immagini, che si svolge nell’arco di 72 ore, da guardare in silenzio, per scoprire alla fine che si tratta di un viaggio per andare a morire in una “clinica” svizzera che pratica l’eutanasia, o per meglio dire, il suicidio assistito. Una storia che tocca l’anima (questo dovrebbe fare per Quirico il buon giornalista: toccare l’anima) e ci fa vedere con i nostri occhi queste famigerate “cliniche”, in realtà bilocali con angolo cottura. Essere sul posto, raccontare in presa diretta, è tutto ciò che di nobile esiste nella professione del giornalista.  E del fotoreporter.


Dulcis in fundo, i mei acquisti: oltre ai libri presentati durante l’incontro, ho approfittato dell’occasione per aggiungere sullo scaffale due romanzi che si preannunciano come due gioiellini della letteratura: I duellanti di Conrad e Il colpo di grazia di Marguerite Yourcenar. Inoltre un saggio economico di Stiglitz: La grande frattura – La disuguaglianza e i modi per sconfiggerla.