venerdì 24 ottobre 2014

Pablo Neruda Qui io ti amo

Italo Calvino: Perchè scrivo





 citazione tratta da Scripta volant (http://www.scripta-volant.org)


Scrivo perché non ero dotato per il commercio, non ero dotato per lo sport, non ero dotato per tante altre, ero un poco…, per usare una fase famosa (di Sartre), l’idiota della famiglia… In genere chi scrive è uno che, tra le tante cose che tenta di fare, vede che stare a tavolino e buttar fuori della roba che esce dalla sua testa e dalla sua penna è un modo per realizzarsi e per comunicare.
Posso dire che scrivo per comunicare perché la scrittura è il modo in cui riesco a far passare delle cose attraverso di me, delle cose che magari vengono a me dalla cultura che mi circonda, dalla vita, dall’esperienza, dalla letteratura che mi ha preceduto, a cui do quel tanto di personale che hanno tutte le esperienze che passano attraverso una persona umana e poi tornano in circolazione. È per questo che scrivo. Per farmi strumento di qualcosa che è certamente più grande di me e che è il modo in cui gli uomini guardano, commentano, giudicano, esprimono il mondo: farlo passare attraverso di me e rimetterlo in circolazione. Questo è uno dei tanti modi con cui una civiltà, una cultura, una società vive assimilando esperienze e rimettendole in circolazione.
Scrivo perché sono insoddisfatto di quel che ho già scritto e vorrei in qualche modo correggerlo, completarlo, proporre un’alternativa. In questo senso non c’è stata una “prima volta” in cui mi sono messo a scrivere. Scrivere è sempre stato cercare di cancellare qualcosa di già scritto e mettere al suo posto qualcosa che ancora non so se riuscirò a scrivere.
Scrivo perché leggendo X (un X antico o contemporaneo) mi viene da pensare: “Ah, come mi piacerebbe scrivere come X! Peccato che ciò sia completamente al di là delle mie possibilità!”. Allora cerco di immaginarmi questa impresa impossibile, penso al libro che non scriverò mai ma che mi piacerebbe poter leggere, poter affiancare ad altri libri amati in uno scaffale ideale. Ed ecco che già qualche parola, qualche frase si presentano alla mia mente… Da quel momento in poi non sto più pensando a X, né ad alcun altro modello possibile. È a quel libro che penso, a quel libro che non è stato ancora scritto e che potrebbe essere il mio libro! Provo a scriverlo…
Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano “esperienza della vita”. Non è il desiderio di insegnare ad altri ciò che so o credo di sapere che mi mette voglia di scrivere, ma al contrario la coscienza dolorosa della mia incompetenza. Il mio primo impulso sarebbe dunque di scrivere per fingere una competenza che non ho? Me per essere in grado di fingere, devo in qualche modo accumulare informazioni, nozioni, osservazioni, devo riuscire a immaginarmi il lento accumularsi dell’esperienza. E questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso.










sabato 18 ottobre 2014

Il fascino misterioso di Petra



“Petra è il più bel luogo della terra non per le sue rovine, ma per i colori delle rocce, tutte rosse e nere con strisce verdi e azzurre, quasi dei piccoli corrugamenti, e per le forme delle sue pietre e guglie, e per la sua fantastica gola, in cui scorre l’acqua sorgiva. Di questo paesaggio ho letto una serie infinita di descrizioni che però non riescono assolutamente a darne un’idea conforme al vero e sono sicuro che nemmeno io vi riuscirei. Quindi tu non saprai mai che cosa sia la realtà di Petra, a meno che tu non ci venga di persona”
Lawrence d’Arabia




“E’ come entrare nel grembo del mondo, nello sconfinato ventre della Terra. Si avverte la memoria, la venuta dei profeti, e la partenza delle carovane verso regni lontani”

Gamal al Ghitani, 1993






 “Trovatemi un’altra meraviglia così ben conservata nel medio oriente, una città rosa, antica quanto metà del tempo”
 John William Burgon,  Petra 1845


“It seems no work of Man's creative hand,

by labor wrought as wavering fancy planned;

But from the rock as by magic grown,

eternal, silent, beautiful, alone!

Not virgin-white like that old Doric shrine,

where erst Athena held her rites divine;

Not saintly-grey, like many a minster fane,

that crowns the hill and consecrates the plain;

But rose-red as if the blush of dawn,


that first beheld them were not yet withdrawn;

The hues of youth upon a brow of woe,

which Man deemed old two thousand years ago,

match me such marvel save in Eastern clime,

a rose-red city half as old as time.”

venerdì 10 ottobre 2014

Fiction


“Certe figure inventate dagli scrittori possiedono la particolare facoltà di insinuarsi nelle nostre esistenze e di occuparvi a nostra insaputa un posto di rilievo. Vi si insediano, vi si fondono al punto da diventare degli amici da interpellare nel dubbio di una scelta, dei riferimenti intorno ai quali organizzare i nostri pensieri, dei fari nell’oceanica notte su cui, alla cieca, naviga la nostra barca.”

Edith de la Héronnière, Ma il mare dice no

giovedì 9 ottobre 2014

Vasco Rossi - C'è chi dice no

Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street


Herman Melville pubblicò il racconto “ Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street” nel 1853, nel periodo più nero della propria parabola di scrittore. Moby Dick, uscito due anni prima, fu stroncato dalla critica, che lo definì incomprensibile, assurdo e pieno di “metafisica tedesca”. Ancora peggio andò con il romanzo “Pierre o delle ambiguità”.
E’ vero che Melville, quasi presagendo il suo insuccesso, durante la stesura di Moby Dick aveva teorizzato che “chi non ha mai fallito in qualche campo, quell’uomo non può essere grande. Il fallimento è la vera prova di grandezza”. Questa profezia non gli portò fortuna: di lì a pochi anni, Melville abbandonò completamente la narrativa, si arrabattò come poté per mantenere la famiglia e sfogò la sua vena artistica e contemplativa nella poesia, nei viaggi e nell’arte.
La trama di Bartleby lo scrivano è presto detta. In uno studio legale di Wall Street viene assunto un nuovo copista, di nome Bartleby. A differenza degli altri dipendenti dello studio, la cui produttività è piuttosto carente (per motivi diversi riescono ad essere lucidi ed efficienti soltanto mezza giornata) Bartleby si afferma subito come esempio di diligenza, decoro e discrezione. Tutt’altro che un indolente o un incapace, o un impostore. Ma entro pochi giorni succede un fatto inspiegabile, il primo di una serie di episodi che passo dopo passo fanno sprofondare la vicenda in un’enigmatica tragedia. E su quell’enigma per oltre un secolo si sono esercitate intere schiere di critici, di eruditi e di accademici a caccia di punteggi.
Succede che Bartleby, a sorpresa e inspiegabilmente, oppone una lunga serie di rifiuti tanto cortesi, quanto fermi, immotivati e irragionevoli a richieste che invece appaiono del tutto ragionevoli e sacrosante, e alla fine persino generose e caritatevoli. Bartleby, educatamente e cortesemente, non arretra, non cede e non accetta compromessi fino ad arrivare all’autodistruzione finale. In tanti hanno provato, ma nessuno è mai stato in grado di spiegare in modo risolutivo e definitivo la sua condotta. Melville ha giocato con il chiaroscuro, quasi volesse beffarsi dei critici che tante delusioni gli avevano procurato.
La scrittrice e filosofa Edith de la Héronnière, nel suo saggio “Ma il mare dice no”, colloca il grigio e insignificante Bartleby tra i personaggi letterari che le sono più cari, accanto ad Antigone, Cyrano, Oblomov, Cosimo di Rondò (il barone rampante) e altri, tutti accomunati da una rara capacità di dire di no.
L’esperienza quotidiana insegna che dire di no è infinitamente meno comodo, più rischioso e meno vantaggioso che dire di sì. Significa spesso opporsi a una lusinga, una promessa, un invito, un ordine, una minaccia, un’appartenenza. Significa escludersi, chiudere una porta, precludersi opportunità. Ancor più, con l’odierna demagogica manipolazione del “pensiero positivo”, chi dice no è automaticamente incluso nella categoria dei conservatori, dei menagramo, del vecchiume da rottamare, dei “gufi” (semplificazioni necessarie per chi ritiene di avere un grande progetto in testa e lo vuole realizzare; c’è solo da augurarsi che sia il progetto giusto).
Proviamo a ricordare le nostre esperienze personali. Ogni volta che abbiamo ricevuto un rifiuto, la nostra prima reazione è stata di trovarlo, in un modo o nell’altro e secondo le giuste proporzioni della specifica situazione, irragionevole (perché non ha accolto le NOSTRE ragioni) o irritante (perché ci ha dato una piccola, o grande, o grandissima delusione) oppure sconfortante (perché ha indebolito la nostra sicurezza sulla nostre capacità di persuasione o sulla nostra capacità tout court). Il no, anche se espresso nel modo più garbato, ci dispiace, è fastidioso e ci disturba. Qualche volta ci spaventa e ci impaurisce (e quando c’è paura, molto spesso c’è anche violenza, o prepotenza, o denigrazione).
Sentite la de la Héronnière: “No è una parola brutale. Non ha la rotondità del sì. Il suo colore, se mai dovessimo dargliene uno, sarebbe il nero, oppure il bianco della morte. Possiede connotazioni, per così dire, negative, ostili e redibitorie. Le immagini alle quali di solito si accompagna non hanno niente di simpatico: un muro, una porta sbattuta sul naso di chi resta fuori, un volto che si nega a chi lo guarda, una mano che afferra il braccio del bambino impedendogli di correre, di fare rumore, di ridere. Il no è la barriera, il rosso cartello segnaletico sbarrato di bianco esposto sulle strade, sulle porte, nei cuori. E’ una parola che ci riporta all’infanzia, ai suoi divieti, al lato oscuro dell’apprendimento che poi la vita si incarica di cancellare. Errore, impasse, senso vietato: parola di melassa e di catrame da cui la luce sembra ritrarsi. A chi di noi piace sentirsela dire?”
Chi dice no ci appare, sempre con la dovuta proporzione alla posta in gioco, una persona poco ragionevole, fondamentalmente ottusa, rigida, o almeno un tantino fredda, scostante, antipatica, poco interessata a noi.
Potremmo forse azzardare che il no pronunciato da una posizione di forza (ad esempio un superiore di grado) può far leva sulle emozioni negative che suscita in chi lo riceve ed essere persino usato come sadica dimostrazione di potere.
Il no pronunciato da posizioni di debolezza (ad esempio un sottoposto, come era Bartleby) corre invece il rischio di restare prigioniero dell’aura eroica che lo circonda e di arenarsi in un’intransigenza tanto sterile quanto masochistica o suicida.
In effetti, tra le numerosissime interpretazioni che furono date al racconto di Melville, ce ne furono alcune che lo leggevano come ribellione contro il pragmatismo utilitaristico e contro l’affannoso attivismo in voga a Wall Street. Altre al contrario vi individuavano il monito contro l’insostenibilità e lo sbocco suicida a cui avrebbero portato le tesi di Thoreau sulla resistenza passiva. (Henry Thoreau, autore di Walden- una vita tra i boschi, proprio in quegli anni aveva pubblicato il suo saggio “Disobbedienza Civile”).
E’ comunque indiscutibile che Bartleby lo scrivano, con la sua trama scarna e i suoi scialbi personaggi (ad iniziare dal protagonista, che paradossalmente rimane più in ombra degli altri) è una magnifica dimostrazione di come quelle due semplici lettere, unite a formare un’apparentemente innocua paroletta, siano in grado di scatenare una ridda di conseguenze imprevedibili ed incontrollabili.
Soprattutto perché cortese, ma ferma e irragionevole, quella frase “I would prefer not to” (che Gianni Celati traduce con: “avrei preferenza di no”) ci pone davanti all’abisso. E adesso? Ci chiediamo ancora increduli. Come giustamente osserva la de la Héronnière: “Il no di Bartleby pone chi lo circonda di fronte a se stesso. Con la sua inazione rivela l’inanità , ossia la stupidità di ogni azione. Con il suo silenzio dimostra l’inutilità di ogni parola. Con il suo rifiuto di lavorare getta una luce assurda sulla laboriosa agitazione dei suoi simili. La cosa più interessante, nel suo caso, sono le reazioni che suscita e che, a ben guardare, coprono l’intero arco dei sentimenti umani: dall’esasperazione alla voglia di uccidere, dal senso di colpa alla tenerezza, dal rimorso alla più profonda compassione. Come tutti i portatori di assoluto, questo piccolo uomo è uno specchio che ci rimanda sia alla nostra estrema umanità, sia alla nostra animalità”.
Nonostante verso la fine del racconto si trovi un indizio, l’unica nota biografica sul passato di Bartleby, che potrebbe orientare una possibile spiegazione, si è propensi a pensare che si tratti di una falsa pista, o di una spiegazione molto parziale. Cito sempre da Il mare dice no: “Qualcosa ci dice che per decifrarne il significato non dobbiamo abbordarla dal lato sociale o psicologico. Con Bartleby si entra nel campo della metafisica e può anche darsi che non esista una vera e propria spiegazione umana per l’atteggiamento di questo eroe. Intuiamo che il suo silenzio è gravido di una protesta rivolta non contro gli uomini o gli dèi ma contro la vita stessa. Se ci sconvolge è proprio perché ci conduce verso uno spazio dove gli argomenti affettivi, psicologici, sociali e religiosi non hanno più corso, ossia verso una sorta di aldilà”.
La capacità di Bartleby di incuriosirci, di commuoverci, di farci pensare e di interessarci nonostante il suo mesto grigiore, e di chiederci alla fine: “dove sta il trucco?” richiama un altro caso di “perdente di successo” della letteratura americana: il più recente e meno problematico Stoner. Anche la vicenda umana di quest’ultimo, guarda caso, è molto segnata da un “no” pesante da lui pronunciato, pur se privo di qualsiasi alone di mistero, ma questa è un’altra storia…
Chiudo segnalando che l’edizione del racconto curata e tradotta da Gianni Celati contiene anche un saggio dello stesso Celati, un elenco ragionato delle varie interpretazioni nel corso del tempo e una selezione delle lettere scritte da Melville nel periodo intercorrente tra la pubblicazione di Moby Dick e la pubblicazione di Bartleby lo scrivano. Tra di esse, anche quelle all’amico Nathaniel Hawthorne, a cui Moby Dick è dedicato.

giovedì 2 ottobre 2014

Carità


“A parte più nobili considerazioni, la carità spesso opera come un principio di grande saggezza e somma prudenza, una grande salvaguardia per chi ne è il portatore. Gli uomini hanno commesso delitti per gelosia, e per rabbia, e per odio, e per egoismo, e per amor proprio; ma nessuno, di cui abbia mai sentito parlare, ha commesso un diabolico delitto a motivo della dolce carità. Il puro interesse personale, dunque, ove altri motivi da metter nel conto non vi fossero, dovrebbe spingere tutti gli esseri, e specialmente quelli di collerica indole, verso la carità e la filantropia”
 

Herman Melville, Bartleby lo scrivano

I corsi d'acqua raggiungono il grande mare attraverso infiniti percorsi.
Per il cristianesimo, la carità è il comandamento supremo.
Il buddismo suggerisce di concentrarsi su sentimenti positivi nei confronti del nemico, per superare i danni che facciamo a noi stessi quando ci facciamo invadere dall’energia negativa.
E Melville sapientemente osserva che una semplice riflessione speculativa e un egoismo che sia appena un poco lungimirante e riflessivo ci porterebbero naturalmente ad una condotta caritatevole.
Molte vie per giungere allo stesso mare…