venerdì 27 febbraio 2015

L'eccesso di regole

Questa volta la citazione non è tratta da un libro e non riguarda un poeta, uno scrittore, un filosofo. Più prosaicamente, è una frase che ho sentito poco fa in televisione, pronunciata dal finanziere Francesco Micheli(*).  
Condivido ogni sillaba, ogni virgola e ogni respiro di questa frase. Ci sbatto la testa tutti i giorni. Ne porto addosso i segni e la fatica. Potrebbe sembrare una banalità come tante, una frase da salotto, da bar, una frase qualunque, ma per me non lo è. Per questo voglio condividerla:

"Oggi abbiamo a che fare con un eccesso di regole che consente ad ognuno di fare ciò che vuole. Il Far West, ma anche la malavita, prevede poche regole che tuttavia si rispettano. Le aziende invece oggi hanno costi anche del 20% in più per produrre carte che non leggerà mai nessuno, grazie alle quali ognuno può fare esattamente quello che vuole".
 Aggiornamento del 20 aprile 2017: 
un'improvvisa e inaspettata escalation nelle letture di questo post, riscontrata negli ultimi giorni, mi suggerisce una precisazione (meglio non dare troppe cose per scontate, con i tempi che corrono): il senso del post e, a mio parere, anche delle parole di Francesco Micheli non è una qualunquistica lamentela contro le lungaggini della burocrazia, o peggio una logora giaculatoria contro lacci e lacciuoli che imbriglierebbero le splendide sorti dell'imprenditorialità e dell'individualità. Si vuole semplicemente dire che molte delle regole, delle procedure, delle carte con cui quotidianamente abbiamo a che fare non è finalizzata, come si vorrebbe far credere, a garantire i nostri diritti, a facilitare i controlli, ad evitare comportamenti scorretti. No, la maggior parte della volte si tratta di carte che consentono di scaricare le responsabilità e di creare uno scudo grazie al quale la forma è salva, ma in sostanza si può impunemente fare ciò che si vuole. A rimetterci sono i soggetti che avrebbero dovuto essere tutelati ed eventualmente qualche capro espiatorio di comodo.

  
 (*) Francesco Micheli, finanziere, appassionato di musica e uomo di cultura, fu l'autore della prima importante scalata avvenuta alla Borsa di Milano (Bi Invest nel 1985). Tra tante altre cose, è stato fondatore di Fastweb e Metroweb, consigliere d'amministrazione della Scala e presidente di MiTo, il festival musicale che si tiene ogni anno in settembre a Milano e Torino.

sabato 21 febbraio 2015

Furore, film di John Ford (1940)



Furore, tratto dall’omonimo romanzo di John Steinbeck (1939), nel 1941 vinse il premio Oscar come miglior film. Tom Joad fu interpretato da Henry Fonda, che ebbe la nomination, ma non vinse il premio per il miglior attore protagonista. Oscar anche alla regia per John Ford. A Jane Darwell (mamma Joad) l’Oscar per la miglior attrice non protagonista.


 





 

 












Tom Joad Part 2 Woody Guthrie

Springsteen - The Ghost Of Tom Joad (sub Ita)

The Grapes of Wrath (Furore) di John Steinbeck



Chiudiamo gli occhi e proviamo ad immaginare.

Una tempesta di polvere, un disastro ecologico di grandi proporzioni, favorito da decenni di avido sfruttamento della terra.

Un esodo, una massiccia migrazione,  che dalle terre inaridite conduce migliaia di famiglie verso una speranza di lavoro, cibo, sopravvivenza.

Un sistema finanziario e bancario che per sopravvivere deve continuare ad alimentarsi anche quando la terra diventa sterile per umana  insipienza e ingordigia, anche quando gli uomini non hanno di che mangiare e pagare le tasse, anche quando le famiglie digiunano e non hanno più casa.

Un muro compatto di funzionari, impiegati, operai, commercianti, piccoli  risparmiatori, pensionati e poveri diavoli: per sfamare se stessi e le loro famiglie seguono senza colpa le fredde leggi di un sistema in base al quale gli appetiti servono unicamente ad alimentare nuovi e più grandi appetiti e dove chi si accontenta non gode, ma soccombe e lascia spazio al più forte, al più fortunato, al più ingordo, al più veloce.

Una terra ricca e fertile, un’agricoltura che è diventata commercio e industria e poi finanza. Un mondo di benessere che attrae, che richiama, che ha bisogno di braccia, tante braccia, e più sono e meno costano, dunque occorre chiamare uomini, donne e bambini da lontano, molto lontano, abbagliati dal miraggio e disposti a tutto.

Una moltitudine in movimento che varca confini e occupa spazi, che ha fame e non ha soldi, che è primordiale nei suoi bisogni e dunque appare rozza, brutale, sporca, minacciosa, infetta.

Una comunità sotto assedio, che teme per il proprio lavoro, la propria casa, la propria salute, la propria sicurezza, le proprie donne, la propria identità e il timore diventa paura e la paura diventa odio e l’odio diventa pregiudizio e l’ignoranza propaga il pregiudizio, l’odio, la paura.

Chi ha paura cerca una difesa. Contro la sporcizia, contro le malattie, contro la criminalità, contro il pericolo venuto da lontano. Occorre stringersi, unirsi, armarsi, vigilare, respingere.

E c’è, soprattutto, l’inesorabile legge della domanda e dell’offerta che regola il mercato, il delicato meccanismo che per essere mantenuto tonico ed efficiente deve fondarsi sullo spreco, sulla deliberata distruzione di parte del raccolto per tenerne alto il prezzo.

Ma sacrificare i frutti della terra in nome del dio denaro, mentre gli uomini non hanno di che sfamarsi, significa commettere azione empia verso la terra e verso gli uomini. E‘ una ubris che aspetta di essere risarcita, e infatti i grappoli d’uva lasciata marcire sui tralci diventano grappoli d’ira, collera, furore.

Ora possiamo riaprire gli occhi. Dove abbiamo visto tutto questo?

Queste immagini, queste scene che potrebbero essere cronaca del XXI secolo fanno da sfondo e da ambientazione ad un grande romanzo scritto settantacinque anni fa e ancora in grado di competere in attualità,  forza e incisività con tante inchieste, ricerche o riflessioni contemporanee.

John Steinbeck scrisse Grapes of Wrath nel 1939, dopo aver studiato la condizione di vita dei contadini dell’Oklahoma a metà degli anni Trenta del secolo scorso, quelli che seguirono la Grande Depressione e sconvolti dalla Dust Bowl, il cataclisma che li fece migrare in massa verso ovest, alla disperata ricerca di lavoro.

La storia della famiglia Joad, del suo viaggio della speranza lungo la Route 66 vuole riassumere e rappresentare l’epopea di un’intera generazione di agricoltori e  favorire la denuncia  di “un’economia che uccide” , come dice Papa Francesco.  Se “Nutrire il pianeta, energia per la vita” (tema di Expo 2015) ci sembra un obiettivo oggi tanto utopico quanto urgente e necessario, è segno che in questi decenni ancora tante famiglie Joad in ogni parte del globo hanno intrapreso con diverse fortune il loro viaggio della speranza.

Pagine che scorrono veloci, parole che pungono, personaggi che rimangono impressi. Tra tutti, mi piace ricordare due donne. L’immensa Ma’, vero centro di gravità della famiglia, titanica e bellissima nel suo impossibile sforzo di tenere unita la famiglia e nel difenderne valori e dignità, e la piagnucolosa Rose of Sharon, a cui spetta l’onore della scena finale del romanzo, perché anche i deboli talvolta trovano nelle avversità qualche occasione di riscatto.

Storia che scava, che colpisce, che ispira (John Ford, Woody Guthrie, Bruce Springsteen) e che continuerà a parlarci a lungo. “Perché io ci sarò sempre, nascosto e dappertutto. Sarò in tutti i posti … dappertutto dove ti giri a guardare. Dove c’è qualcuno che lotta per dare da mangiare a chi ha fame, io sarò lì …. Dove c’è uno sbirro che picchia qualcuno, io sarò lì … e sarò nelle risate dei bambini quando hanno fame e sanno che la minestra è pronta. E quando la nostra gente mangerà le cose che ha coltivato e vivrà nelle case che ha costruito …  be’, io sarò lì”.

lunedì 16 febbraio 2015

Spingendo la notte più in là



Letto finalmente il bel libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là uscito sette anni fa.

Lui nel frattempo ne ha scritti altri due: La fortuna non esiste (2009) e  Cosa tiene accese le stelle (2011). Non ho dubbi che siano altrettanto belli, di quei libri che ogni tanto fa bene leggere.

Questo in particolare è un libro che, mescolando cronaca e storie famigliari, a partire dalla propria, ci parla di chi ha pagato il prezzo più alto degli “anni di piombo”. Le pagine ripercorrono in fretta quel periodo, soffermandosi con delicatezza sulle vittime, sul dolore lasciato, sugli orfani e sulle vedove, senza indugiare più del dovuto, giusto il tempo di stabilire un contatto umano, una vicinanza, un’intima solidarietà.

Parlare delle vittime e delle loro famiglie, occuparsi di loro, ricordarle è una scoperta relativamente recente. Per lunghi anni il centro della scena è stato occupato dai rei, dai colpevoli o presunti tali, dagli assassini, verso cui si scaricano le nostre reazioni emotive più forti e che si prestano maggiormente ad analisi socio-psicologiche più o meno valide e a strumentalizzazioni politiche, ideologiche,  mediatiche. Nei confronti delle vittime ha invece prevalso spesso l’imbarazzo, il disagio rivestito pudicamente di rispetto,  e infine l’oblio.

Ma un po’ alla volta sono sorte iniziative, si sono costituite associazioni, si sono scritti libri e dunque adesso si può dire che, dopo essersi a lungo occupati di Caino, da qualche tempo ci si sta interessando anche di Abele, pur in proporzioni ancora molto diverse.

Mentre su Caino siamo sempre pronti a radicalizzare le nostre idee, a dividerci e scontrarci, a dare giudizi netti quanto spesso frettolosi e superficiali, su Abele invece esitiamo, siamo più turbati, non troviamo le parole, i gesti, gli sguardi.

Spingendo la notte più in là parla anche di pacificazione, però autentica e non di facciata come quasi sempre avviene. Più condizionati dalla sociologia e dalla politica che guidati da attenzione alle relazioni  umane, spesso tendiamo a equiparare la “pacificazione” ad un colpo di spugna sui reati, ad un indebolimento del confine tra la ragione e il torto e al pieno reinserimento sociale dei colpevoli, termine che qualche volta si vorrebbe persino sostituire con il semplice “sconfitti”. 

Incredibilmente troppo spesso ci si dimentica che una pacificazione autentica imporrebbe di chinarsi prima di ogni altra cosa verso le vittime, evitare che si riaprano ferite che faticano a rimarginarsi, occuparsi prima dei loro sentimenti e poi dei “diritti” del reo.

Come non esiste pena possibile o risarcimento possibile per la soppressione di una vita umana (le leggi stabiliscono dei limiti convenzionali dettati dal grado di civiltà e cultura giuridica raggiunto) così una vera riconciliazione non può avvenire per semplice procedura burocratica. I provvedimenti più o meno liberali che possono essere adottati dallo Stato sono una cosa ben diversa dal superamento delle barriere per proprio moto dell’animo. E le barriere possono essere superate, sembra suggerire il libro di Calabresi, ristabilendo innanzi tutto la verità senza opacizzarla, riconoscendo il male provocato senza cercare giustificazioni, trovando il coraggio di piangere lo stesso pianto della vittima, su un’unica sponda, non due pianti diversi su sponde diverse.

E’ giusto che uno Stato liberale e un sistema giuridico non vendicativo aiutino i rei a voltare pagina. Ma per parlare di ritorno alla normalità e di riconciliazione occorre che la pagina riescano a voltarla anche le vittime. Leggendo il bel libro di Calabresi ci si rende conto che mentre i primi sono accompagnati nel loro percorso da una folla fin troppo numerosa di supporter e di curiosi, le vittime sono lasciate spesso sole e devono trovare da sé l’energia, la voglia e il coraggio di guardare avanti.